Intervista a Raffaele della Valle

 Valentina Stella Dubbio 12 giugno 2023

A 40 anni dall’arresto di Enzo Tortora, avvenuto il 17 giugno 1983, esce la prossima settimana un libro-intervista scritto dall'avvocato Raffaele Della Valle insieme al giornalista Francesco Kostner. Il volume, disponibile dal 15 giugno e pubblicato dall'editore Luigi Pellegrini, è intitolato “Quando l'Italia perse la faccia - L'orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora”. Tortora fu accusato di appartenenza alla “Nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo e di avere svolto un ruolo di primo piano nel traffico di droga gestito dall'organizzazione criminale napoletana. “Responsabilità gravissime e infamanti - è detto in una nota dell’editore - apparse subito prive di fondamento (Giorgio Bocca definì il caso “il più grande esempio di macelleria giudiziaria del nostro Paese”), ma che non impedirono la condanna in primo grado di Tortora a dieci anni di reclusione. Un’assurda e indimostrata impalcatura probatoria che cadde miseramente nel processo d’appello, conclusosi il 15 settembre del 1986, per poi essere definitivamente smentita dalla Corte di Cassazione, che confermò la sentenza di secondo grado”. “Oggi, per la prima volta in modo compiuto ed analitico - si afferma ancora nella nota della Pellegrini – l’avvocato Della Valle, difensore di Tortora insieme al professor Alberto Dall’Ora ed all’avvocato Antonio Coppola, racconta la storia giudiziaria in cui fu coinvolto il presentatore, assurta nell'immaginario collettivo a simbolo di una Giustizia contraria ai principi costituzionali e alle fondamentali regole di un equo ed equilibrato processo penale”.

Avvocato Della Valle cosa ricorda di quella notte?

Ricordo tutto, l’ho fisso nella mia mente come un chiodo. La vicenda è stata talmente traumatica e incredibile che non posso dimenticare nulla. È il ricordo di una drammaticità esclusiva, irripetibile. Sono stato chiamato alle 4 del mattino e dall’altra parte c’era Enzo con una voce rotta dal dolore, sconquassata. Mi diceva disperato: “Raffaele intervieni, mi stanno arrestando, non riesco a capire”. Dal quel momento capii subito che Enzo era stato colpito da una “bomba atomica”. Rievocare a 40 anni di distanza quella notte e ciò che avvenne dopo ancora mi emoziona molto. Questa vicenda ha cambiato anche la mia vita e il mio rapporto con i magistrati, verso i quali mi sono molto “indurito”. Poi pian piano ho cercato di recuperare il doveroso rispetto che meritano ricordandomi che esistono magistrati intelligenti, ma anche, purtroppo, magistrati che vivono ancora come nell’epoca dell’inquisizione.

Enzo Tortora subì quello che gli americani chiamano la ‘passeggiata della vergogna’ davanti a giornalisti e cittadini.

Sono rimasto 5 ore nella caserma dei carabinieri e poi capii il perché: lo avrebbero tradotto a Regina Coeli proprio per consentire ai tg di dare la diretta nel suo ingresso in carcere. Io seguii il blindato con un taxi. Enzo arrivò su un furgone che si fermò a una cinquantina di metri dall’ingresso del carcere. Lo fecero scendere, ammanettato con ferri da tortura medievale e lo fecero sfilare. Vidi una folla da rivoluzione francese, gente che gridava, imprecava, sputava contro di lui. Il pensiero triste è che quella gente la sera prima idolatrava Tortora e bramava per andare nella sua trasmissione. Tortora sembrava un agnello che andava al macello. Io mi trovavo solo lì, senza nulla in mano. Avevo interpellato il collega e amico del foro di Napoli, Antonio Coppola, affinché mi dicesse cosa stesse accadendo, avendo lui, ovviamente, rapporti professionali con i giudici partenopei.

Cosa avvenne durante il primo interrogatorio?

Fu una farsa. Gli fecero solo quattro domandine. La prima: se conosceva Domenico Barbaro, un detenuto, pilastro dell’accusa. Dalla redazione di Portobello saltò fuori una corrispondenza fra l’ufficio legale della Rai e questo Barbaro, che chiedeva 800mila lire per alcuni centrini di seta che aveva mandato per la trasmissione, e che erano andati persi. Quando tirai fuori la prova di quella corrispondenza, il cancelliere sbiancò perché aveva capito che non poteva essere una prova contro Tortora.

La seconda?

Gli mostrarono una scolorita carta di identità di una donna e chiesero a Enzo se la conoscesse. Tortora a sua volta chiese al giudice un’indicazione per aiutarlo a ricordare, ad esempio che attività svolgesse quella donna. Il magistrato gli rispose così: “E che mestiere vuole che faccia? La puttana”, presupponendo che siccome era indagato doveva per forza frequentare quel tipo di donne. Poi si scoprì che non si erano mai visti.

La terza?

Se era mai stato a Ottaviano. E Tortora rispose di no, disse che di Ottaviano aveva forse scritto sul Monello parlando del terremoto dell’Irpinia. Poi una quarta domanda assolutamente irrilevante posto che non la ricordo più. Fine dell’interrogatorio. In mano i pm non avevano altro: né pedinamenti, né intercettazioni, né soldi trovati. Niente di niente.

Eppure ci furono tre pentiti ad accusarlo e sia i pm che i giudici di primo grado hanno dato credito alla loro versione. Come è stato possibile?

È una bella domanda. Io nel mio libro non parlo infatti di errore ma di orrore giudiziario.  Chiunque, anche un bambino della quinta elementare, sentendo parlare quei soggetti avrebbero loro riso in faccia. Facevano delle dichiarazioni “lunari”. Erano soggetti, così come risultava da perizie svolte in processi passati in giudicato, affetti da grave infermità mentale. Invece si è sviluppato un fenomeno di follia collettiva per cui questi personaggi sono stati trasformati in idoli che dicevano la verità. Una verità costruita negli alberghi dove venivano sistemati in modo che si potessero mettere d’accordo su cosa dire contro Tortora. Erano autentiche farneticazioni: basta andare a rivedersi la deposizione di Pandico in cui racconta come si uccide e si scuoi un animale. Se i magistrati hanno creduto con convinzione alle deliranti dichiarazioni, vien fatto di pensare che non fossero adeguatamente in grado di fare il loro mestiere, se invece hanno finto di crederci, allora la cosa sarebbe ancora più grave.  Le racconto un episodio allucinante.

Prego

Uno di loro raccontò anche di un incontro fra Tortora e il boss Francis Turatello al ristorante La Vecchia Milano. Oltre a Turatello, ci sarebbero stati anche Roberto Calvi e Flavio Carboni, insomma il banchiere e il faccendiere. Io dissi al pm: andiamo a sentire il proprietario e i camerieri di quel ristorante e chiediamo loro se hanno mai visto Tortora. Sa che cosa fece il pm?

Cosa?

Mandò la polizia giudiziaria a verificare se esisteva davvero il ristorante La Vecchia Milano. Ottenuta la conferma, considerò di avere riscontrato le parole del calunniatore. Io dissi al pm: se le raccontano di un delitto commesso sotto la Torre di Pisa, lei ci crede perché la Torre di Pisa esiste?

Non bastò a scagionare Tortora la testimonianza di Tortona.

Ad un certo punto saltò fuori la famosa agendina telefonica di un camorrista. “C’è il numero di Tortora su quell’agenda”, sostenne l’accusa. Ci sono voluti oltre due mesi da quando sulla stampa venne pubblicata la notizia, per fissare un nuovo interrogatorio di Tortora presso il carcere di Bergamo ove nel frattempo Tortora era stato trasferito per gravi motivi di salute e per sentirci contestare la famosa agendina con i numeri e il nominativo riportato. Il 30 settembre siamo all’interrogatorio; pensavamo finalmente di potere vedere la “famigerata agendina” ma ahimè scoprimmo che il Giudice l’aveva scordata a Napoli, ciò, in quanto a dire dal magistrato, la sua cancelleria non era organizzata bene come le nostre cancellerie.

Incredibile. Tornò a Napoli?

Lì finalmente vidi l’agenda. Il numero era di un tale Enzo Tortona, con la enne. Uno di Salerno. Nei verbali, Tortona era diventato Tortora e nessuno si era premurato di fare una verifica che avrebbe portato via cinque minuti. Al processo chiamammo a testimoniare Enzo Tortona, il quale confermò: “Quel numero è mio”. Il presidente gli contestò: “Che prova ci dà che quel numero è suo?”. “Dotto’, facite ‘o numero”, rispose il testimone con la sua filosofia napoletana.

È vero che in appello la sua arringa è durata sette ore?

In primo grado arrivai forse a dieci ore. Lì però i giudici, evidentemente, non so fino a che punto mi ascoltavano, mentre in appello abbiamo trovato ben altri magistrati disposti a capire e che hanno dato seguito a tutte le nostre richieste di riscontri.

Il giudice estensore della sentenza di assoluzione fu Michele Morello. Il figlio, anche lui magistrato e ora membro del Csm, ha raccontato che dopo quel giudizio fu isolato da molti colleghi. Mentre i pm che accusarono Tortora fecero carriera.

Il giudice Morello spiegò bene in una intervista che non poteva materialmente condannare Tortora. Chiunque lo avesse fatto avrebbe commesso una ingiustizia. Anzi richiamò i magistrati napoletani affinché rispettassero la procedura penale. Le responsabilità poi non furono solo dei magistrati ma anche degli avvocati. Il pm Diego Marmo poi si pentì e disse “Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede”. Ma la famiglia non accettò quelle scuse, perché fu un pentimento tardivo.

In che senso gli avvocati?

Basti vedere come i difensori d’ufficio si trasformarono in difensori dell’ufficio. Avallavano le violazioni procedurali in silenzio.

Cosa avrebbe dovuto insegnarci la vicenda Tortora e però non ne abbiamo fatto tesoro?

È rimasto tutto come prima. Le riforme sono qualcosa di importante. Nell’antichità significavano rivoluzione. Le nostre non sono riforme ma abbellimenti. La vera riforma necessaria è la separazione delle carriere. Quello che conta davvero adesso è il parere del pm. E se il parere del pm è caratterizzato da una forte mentalità inquisitrice e il giudice non ha l’autonomia che ebbe Morello si adeguerà al parere dell’accusa, anzi, ed è ancor peggio, alla relazione della polizia giudiziaria, che il pm, molto spesso, non riesce più a controllare. È su questo problema che gli avvocati devono focalizzare la loro attenzione.

Anche la stampa non ha imparato molto.

Allora si scrisse una storia tristissima del giornalismo italiano. Oggi i giornalisti sembrano diventati inquisitori: indagano, cercano la prova, interrogano i testimoni; tutte cose che non sono di loro specifica competenza, specie poi se si allineano acriticamente alla tesi accusatoria.

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue