Intervista a Gianpaolo Catanzariti

 Valentina Stella Dubbio 29 giugno 2023

 

Il blitz della DDA di Catanzaro di due giorni fa solleva diverse questioni, dal piano giuridico a quello dell’informazione. Ne parliamo con Gianpaolo Catanzariti, avvocato e co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali Italiane.

 

Ilario Ammendolia ha scritto: “Quasi ogni maxi operazione non è altro che un cocktail preparato da sapienti barman. Alla fine bisogna stupire con gli effetti speciali: la colonna aviotrasportata, le sirene ululanti nella notte i militari in divisa, la conferenza stampa stile Sud America”. Non le chiedo di esprimersi sulla vicenda in sé, ma ritiene questa descrizione appropriata in generale?

 

Credo che Ammendolia abbia descritto bene un quadro oramai usuale e davvero stantio per la Calabria. I maxi blitz offerti all’attenzione mediatica, non solo nazionale, impressionano per i numeri. Forze di polizia impegnate, arrestati, elenchi a 3 o 4 cifre di indagati. Se poi nella pesca a strascico finiscono esponenti della politica, aumenta la giustezza dell’operazione, che rimane tale anche se dopo anni si partorisce un topolino. Conta lo stupore iniziale, la diffusione per giorni o mesi di spezzoni di informative in grado di sollecitare i pruriti collettivi e offrire la solita narrazione di regione irredimibile e magari infetta per il resto d’Italia. Il giusto mix per l’emissione di una sentenza sbrigativa e senza appelli: quella della rete, superficiale ed arrabbiata. Alla fine il processo e la verifica nel contraddittorio delle parti potranno interessare, al massimo, gli avvocati e i loro assistiti. Figuriamoci la sentenza, specie se di assoluzione.

 

Si può parlare in Calabria anche di stampa molto allineata con le procure a cui danno voce in maniera esclusiva e acritica? Viene meno il loro ruolo di guardiani del potere, compreso quello della magistratura?

 

La Calabria rappresenta la punta estrema e più arretrata, anche su questo versante. I media spesso sono megafoni delle iniziative giudiziarie e delle tesi dei pm. Hanno abdicato alla loro funzione in una democrazia moderna. Favorire, attraverso una corretta informazione, il controllo pubblico sull’operato di ogni potere, svelandone, come diceva Sciascia, il volto osceno. E quei pochi sulla piazza che coltivano il dubbio, sono additati come espressione di interessi opachi. Eppure senza il dissenso pubblico e isolato di qualche opinionista, non avremmo mai avuto il “caso Tortora”.

 

Il Pd calabrese in una nota scrive: "ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza". Qualcosa stona?

 

Ipocrita affermazione, che non riguarda solo il PD, che spesso si accompagna alla “fiducia nella magistratura”. La nostra Costituzione, almeno fino a quando non verrà cancellato l’art. 27, e i valori di civiltà dell’occidente ci dicono, in maniera inequivoca, che l’indagato e l’imputato non devono dimostrare alcunché. È il pm che deve offrire al giudice le prove granitiche delle sue accuse, vincendo, appunto, la presunzione costituzionale della non colpevolezza. È il segno di come una classe dirigente si sia trasformata negli anni in classe dominante.

 

Questa visibilità a ridosso della scelta del Csm sul nuovo procuratore di Napoli, potrebbe avvantaggiare il Procuratore di Catanzaro?

 

Non saprei dire se gli effetti speciali di una inchiesta possano condizionare le scelte di un organo di rilevanza costituzionale come il CSM nel conferimento di incarichi direttivi. Di norma si dovrebbe guardare alle conferme finali delle indagini di un Pm. Da cittadino mi sentirei più tutelato se si premiasse un PM il cui operato ha offerto risicatissimi margini di errore. Non è solo un problema di credibilità della toga prescelta. È il fondamento della convivenza civile e della sicurezza di una comunità.

 

Sempre il Procuratore di Catanzaro ha esordito in conferenza stampa: “abbiamo arrestato 41 presunti innocenti”.  Catarsi o sfottò nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza voluta dalla Cartabia?

 

È difficile accettare un principio di civiltà. Gli arrestati sono “persone” la cui dignità non può essere cancellata da nessun provvedimento giudiziario quale che sia la condotta criminosa loro contestata. Nemmeno una condanna passata in giudicato può calpestarla. Purtroppo il rispetto della presunzione di non colpevolezza – e non di innocenza – è qualcosa che va praticata e non certo predicata.

 

A proposito di Cartabia, la sua riforma del processo penale non tocca i processi di criminalità organizzata. Si tratta di un grave vulnus?

 

Come al solito prevale la logica dell’eccezione che è, per definizione, irrazionalità. E non è solo un deficit della riforma Cartabia. La storia del nostro Paese è infarcita di sbarramenti feroci nel nome della lotta alla mafia. A prescindere.

 

Appunto, in nome di una certa antimafia, in Calabria si sta rafforzando una torsione dei diritti degli indagati e degli imputati?

 

Non solo in Calabria anche se la Calabria è da anni un laboratorio giudiziario che poi esporta i suoi esperimenti, facendo risalire al Nord la linea della palma. Le torsioni pericolose di un sistema votato alla belligeranza si espandono sempre più verso settori che nulla hanno a che fare con la criminalità mafiosa. Questa espansione ha svegliato dal torpore anche l’avvocatura oltre che la dottrina. Fino a quando la disciplina emergenziale riguardava poche centinaia di mafiosi e terroristi, erano in pochi a dubitare sulla correttezza della risposta repressiva. Adesso che il doppio binario processuale ha trasformato il processo in un binario unico speciale, il dubbio sulla utilità e soprattutto sulla tenuta costituzionale del sistema emerge in tutta la sua imponenza. Quando le armi di distruzione di massa interessano vaste aree del Paese il numero delle vittime collaterali non può passare inosservato.


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