Trattativa: intervista a Vittorio Manes

 Valentina Stella Dubbio 14 novembre 2023


Motivazioni sulla (non) Trattativa Stato Mafia: parla l’avv. Prof Vittorio Manes che ha difeso il gen. Mori unitamente all’avv. Basilio Milio, e il colonnello De Donno unitamente all’avv. Francesco Romito.

 

Professore qual è l'elemento principale che emerge nelle motivazioni rispetto ai suoi assistiti?

 

L’elemento che spicca maggiormente è il rigore con cui la Cassazione ha analizzato l’impianto probatorio della sentenza di appello, che aveva già assolto Mori e De Donno per mancanza del dolo, mettendo in luce la evidente natura congetturale del percorso argomentativo con cui si era ritenuta oggettivamente provata la condotta di concorso nel reato di minaccia a corpo politico: percorso congetturale incompatibile con la logica probatoria che domina il processo penale, secondo la quale la responsabilità deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In sintesi, la tesi della “veicolazione” della minaccia mafiosa da parte del gen. Mori all’allora Ministro Conso, per il tramite di Di Maggio, era costruita non solo su ipotesi solo plausibili, ma più autenticamente su congetture e presunzioni, o su autentiche catene di presunzioni (quella che i giuristi usano definire la c.d. praesumptio de presumpto): tutti passaggi argomentativi incompatibili con il rigore dell’accertamento penale, perché lasciavano appunto residuare dubbi ben più che ragionevoli, ossia spiegazioni alternative non implausibili o quantomeno altrettanto plausibili rispetto a quella aprioristicamente seguita dai giudici di appello. Questo punto è cruciale: per provare la responsabilità penale non basta un convincimento soggettivo in ordine a questa o quella ipotesi, servono appunto prove; ed anche quando si tratta di prova indiziaria, come in questo caso, la consistenza degli indizi e la loro concordanza devono essere ricostruite e dimostrate con sorvegliata attenzione, altrimenti tutto si riduce a nulla più che un lancio di dadi.

 

"La Corte di Assise di Appello non ha osservato il principio dell'oltre ragionevole dubbio quale metodo nell'accertamento del fatto". Affermazione pesante degli ermellini?

 

Non pesante, ma rigorosa. Ed è esattamente il compito che deve svolgere la Corte Suprema: verificare scrupolosamente se il ragionamento probatorio supera lo standard probatorio richiesto dall’epistemologia del processo penale, che non è libera ma è vincolata appunto a criteri rigorosi e stringenti. La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio è una metaregola, o se si vuole una regola che fonda tutte le altre regole: è il primo antidoto contro il rischio, sempre vivo, di errore giudiziario. E in questo caso ha condotto a rovesciare una pronuncia che aveva ritenuto accertato un contributo alla realizzazione del reato che, viceversa, è risultato del tutto sfornito di prove; di più, la Corte ha ritenuto “evidente” che quella condotta non fosse stata affatto dimostrata, pur dopo una istruttoria estremamente approfondita, essendo stata raggiunta – come già accennato - solo all’esito di inammissibili salti logici, ragionamenti apodittici e presuntivi. Ed ha peraltro evidenziato, con argomentazioni chiare e stringenti, anche la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del ROS ad integrare una qualsivoglia forma penalmente rilevante di concorso morale – per istigazione o determinazione - nel reato di minaccia a corpo politico commesso dai vertici di “cosa nostra”. Ecco perché la sentenza della Suprema Corte ha ritenuto di assolvere Mori e De Donno con la formula tranciante “per non aver commesso il fatto”, senza necessità di un ulteriore giudizio in sede di rinvio, che del resto non avrebbe potuto arricchire in nulla il già ponderoso bagaglio istruttorio.

 

La Cassazione ha aggiunto: "Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale  profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio".

 

È un altro passaggio importante, perché mette in luce, anche da diversa prospettiva, la singolarità dell’accertamento penale, e del suo statuto epistemologico: il processo penale non è un laboratorio di ipotesi storiche, ma è volto ad accertare fatti, puntuali, singoli, determinati, quelli che sono cristallizzati nell’imputazione  - come appunto scrive la Corte – che sono il thema probandum e il thema decidendum. Tutto il di più è eccentrico rispetto all’accertamento processuale, che non può piegarsi – o essere piegato – ad accertare fenomeni, né farsi produttore di storia.

Anche da questo punto di vista, sono del tutto comprensibili le acuminate affermazioni della Corte: nel “processo trattativa” si è ritenuto di poter fare, con grande enfasi mediatica, un processo alla storia. Ma la storia non si lascia processare, tanto meno quando il fine è accreditare una ricostruzione degli accadimenti che non trova alcun riscontro negli elementi di fatto, nelle prove, se esaminati secondo le sequenze logiche e i criteri che appunto sono imposti per raggiungere – nella sede penale – la “verità processuale”, che si basa unicamente sui fatti. E i fatti – con la loro esasperante ostinatezza - sono sempre gli argomenti più testardi.

 

Secondo lei i fautori della Trattativa saranno legittimati ancora a dire che una cosa sono le sentenze, altro è la storia?

 

Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma questa decisione ha già suggellato una ricostruzione precisa ed accurata di quanto è accaduto. Ha accertato la condotta di Ciancimino, ha accertato i colloqui con Mori e De Donno, ha accertato che vi era stato, da parte di Ciancimino e i suoi referenti, un contegno configurabile come minaccia mafiosa, ma ha anche accertato con altrettante nettezza l’assenza di ogni prova e anche di ogni minimo, significativo elemento indiziante in ordine al fatto che Mori e de Donno abbiamo dato corso a quella minaccia, che dunque è rimasta allo stadio del tentativo. I due alti ufficiali del ROS, nel dialogo con Ciancimino, hanno prestato ascolto, perseguendo il solo intento di difendere lo stato dalla emergenza stragista. Questa è l’unica storia, all’esito di un processo durato ben oltre dieci anni.

 

Alla fine ha avuto ragione il professor Giovanni Fiandaca nel dire che questo processo era una boiata pazzesca e che ha mostrato molte criticità del circolo mediatico-politico-giudiziario? 

 

Guardi, al di là dei titoli giornalistici che furono dati a quella intervista, penso che la lettura del prof. Fiandaca, che è uno dei più grandi Maestri del diritto penale del nostro tempo, sia stata pienamente condivisa dalla Corte, e che le criticità che da sempre l’illustre studioso – unitamente allo storico Salvatore Lupo – avevano evidenziato, sono emerse con tutta la loro nettezza, e dovremmo solo ringraziarli per il loro coraggio, la loro coscienza civica e la loro alta testimonianza intellettuale.  Questa vicenda dovrebbe far molto riflettere sulla forza deformante della narrazione mediatica, e sugli effetti perversi che questa narrazione produce nella pubblica opinione e nel processo. La speranza è che la vicenda processuale della trattativa Stato-mafia resti, come una pietra d’inciampo, nel percorso verso una giustizia penale migliore.

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