Gogna e accusa di violenza: l’erosione della presunzione d’innocenza e l’attacco al ragionevole dubbio

 Valentina Stella per Extrema Ratio


Buon pomeriggio a tutti. Grazie per l’invito agli organizzatori. Scusate la mia assenza fisica ma non mi è stato possibile prendere un giorno di ferie. Voglio subito partire “offrendovi” un caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera: «Mi piacerebbe prendere un caffè con la dottoressa Bonaventura del tribunale di Roma per approfondire la sua visione del mondo. Fu lei ad assolvere il bidello che aveva toccato il sedere di una studentessa nello stesso tempo impiegato da Jacobs per vincere i 100 metri alle Olimpiadi, sentenziando che sotto i dieci secondi il palpeggiamento è fugace, suppongo assimilabile a un gesto di cortesia. Ora la giudice si rivela recidiva, perché dopo il bidello manda assolto anche il dirigente di museo accusato da un’impiegata di saltarle addosso negli sgabuzzini, sniffandole i capelli al grido di “Quanto mi arrapi”. Nella sentenza sta scritto che i colleghi non hanno confermato le accuse dell’impiegata (il museo invece deve averle creduto, visto che ha licenziato il direttore) e tanto dovrebbe bastare per assolvere l’imputato. Invece la magistrata sente il bisogno di aggiungere che “la ragazza era probabilmente mossa da complessi sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso)” che l’avrebbero portata a “ritenersi aggredita fisicamente”. Per la giudice-psicanalista una donna sovrappeso è indotta a vedere molestie dove non ci sono: se il direttore di museo avesse sniffato i capelli a Margot Robbie in uno sgabuzzino gridandole “Quanto mi arrapi”, lei lo avrebbe correttamente interpretato come un complimento alla sua marca di shampoo, senza farsi venire strane idee. Sì, vorrei tanto approfondire la visione del mondo della dottoressa Bonaventura. Soprattutto vorrei capire perché si ostini a tradurre questa visione non in saggi o romanzi, ma in sentenze». Ecco, io invece vorrei tanto sapere se Gramellini ha letto le sentenze di cui scrive. Al Dubbio l’abbiamo fatto. Si tratta di due sentenze articolate e dettagliate nella ricostruzione della prova. Condivisibili o meno è altro discorso, ci penserà la Corte di Appello a stabilirlo. Da nessuna parte, nella sentenza che ha assolto un operatore scolastico romano dall’accusa di aver infilato le mani negli slip di una studentessa minorenne, c’è scritto che non è violenza perché la palpata è durata meno di dieci secondi. Semplicemente «non sono emersi elementi probatori sufficienti a formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell’imputato» con riferimento alla presenza dell’elemento soggettivo della condotta. Per l’altro caso il dirigente di un museo capitolino è stato assolto, perché, tra l’altro, le testimonianze di colleghi e colleghe di lavoro hanno letteralmente demolito la versione fornita dalla parte offesa, indicata anzi come essa esplicitamente attratta sessualmente dall’imputato. Una debacle processuale della querelante, che forse ha spinto il Collegio ad ipotizzare una qualche spiegazione («probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico»). Eppure è partito il linciaggio mediatico contro la V sezione collegiale del Tribunale di Roma, specializzata in materia, e sui giornali sono apparsi i nomi e cognomi delle magistrate che la compongono. Nessuna testata si è presa la briga di spiegare nel dettaglio le sentenze. Come ha sintetizzato bene l’ex presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza: «Questo è il livello e la qualità della cronaca giudiziaria nel nostro Paese, alla famelica caccia di scandalose assoluzioni (mai di scandalose condanne), per aizzare indignazione, viralità sui social, kermesse forcaiole, numero di lettori e di like, senza sentire non dirò il dovere, ma almeno il decoroso bisogno di leggere un rigo delle sentenze sulle quali si vomita fango». Ma questi non sono gli unici casi di assoluzione per reati di violenza contro le donne. Ho fatto una breve ricerca di internet: «Busto Arsizio, accusato di violenza sessuale, venditore ambulante assolto dopo tre anni con la prova del Dna», «Condannato a 5 anni per violenza sessuale, viene assolto in appello sette anni dopo: “Era fuori città per lavoro», «Violenza in discoteca: assolto dieci anni dopo. “Non abusò della ragazza». E potrei continuare. Certo, è anche vero che nel 2021 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare – della Convenzione per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro con una sentenza che conteneva passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima. Il caso riguardava una sentenza della Corte d’appello di Firenze che aveva comunque assolto 7 imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso a Firenze. Tuttavia questo non giustifica, a prescindere da innocenza o colpevolezza degli imputati, un dibattito così tossico da non permettere ai lettori e agli spettatori di capire davvero quali siano i termini in gioco di un giusto processo. Prendiamo il caso di Alberto Genovese, noto imprenditore condannato a Milano con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni durante un festino. Quando ancora si era nella fase iniziale delle indagini preliminari in una trasmissione televisiva l’incredibile distorsione del processo mediatico fu rappresentata dall’ascoltare in diretta i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero. Altre volte furono ascoltate le ragazze, con il sottopancia “vittime”, perché aggiungere “presunte” sarebbe stata una lesa maestà della credibilità della donna. Addirittura, in un’altra puntata dedicata al caso di Ciro Grillo, furono mosse contestazioni in diretta ad un testimone facendo emergere le contraddizioni rispetto alle sue dichiarazioni ai carabinieri. «Avanzare prove durante una trasmissione o addirittura fare un incidente probatorio non fa affatto bene al processo che forse ne seguirà, soprattutto perché si rischia di inficiare la verginità cognitiva dei giudici», commento l’avvocato Luca Brezigar, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi.

Ma cosa prevede il codice deontologico di noi giornalisti?
Articolo 5bis:
«Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista: a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona; b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso; c) assicura, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari delle persone coinvolte».
Ma ci raccomanda anche all’articolo 8 “Cronaca giudiziaria e processi in tv”:
«Il giornalista: a) rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online; b) osserva la massima cautela nel diffondere nomi e immagini di persone incriminate per reati minori o condannate a pene lievissime, salvo i casi di particolare rilevanza sociale; c) evita, nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti; d) nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo – garantendo il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti; e) cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi».


Fermatevi un attimo a pensare e chiedetegli se questo avviene. No, nella maggior parte dei casi. Questo per dire che non può essere instillata tramite i media una dogmatica fede nella donna che denuncia. Già sappiamo che la presunzione di innocenza è vilipesa quotidianamente e con fatica abbiamo recepito la direttiva europea, che pure ha i suoi limiti. Tuttavia quando si tratta di casi di presunta violenza, l’indagato è ancora più spacciato agli occhi dell’opinione pubblica. C’è poi un altro elemento da sottolineare: tutta questa attenzione mediatica sulle vicende che trattano la violenza sessuale mette in evidenza una stortura, ossia guardare al genere del collegio giudicante, come se dalle donne ci si aspettasse sempre e per forza un comportamento di esemplarità della pena. Come mi ha spiegato benissimo in una intervista la presidente della Camera penale livornese Aurora Matteucci, «la lettura dei fenomeni criminali, in generale, ma soprattutto dei reati a sfondo sessuale o di violenza maschile contro le donne soffre gli effetti negativi di un eccesso di radicalizzazione e quindi di semplificazione: come al solito scaricare sul solo diritto e sul processo penale questioni che prima di tutto dovrebbero trovare composizione sul piano culturale produce storture pericolose». In definitiva, «a contendersi il campo sono due stereotipi opposti: se da un lato ancora resistono narrazioni che tradiscono l’esistenza di una cultura patriarcale, dall’altro pensare che una donna che denuncia debba essere creduta a prescindere svuota di senso la funzione del processo e rende sostanzialmente indifendibili imputati, presunti innocenti, già condannati mediaticamente. I commenti alle sentenze si sprecano, spesso senza averle lette, senza aver seguito il processo, senza aver fatto la fatica di seguire gli snodi cruciali dell’accertamento dei fatti. E ogni assoluzione viene vissuta come una mancanza di giustizia. Soprattutto, in tema di violenza sessuale, si assiste troppo spesso a libere interpretazioni del testo normativo da parte di una giurisprudenza creativa: se è vero che dal 1996 il reato di violenza sessuale non è più, per fortuna, un reato contro la moralità pubblica, dall’altra parte, però, aver concepito fatti diversi (un conto è lo stupro, un conto è il pur odioso atto di palpeggiamento) entro la stessa fattispecie ha prodotto effetti draconiani per situazioni che, semmai, andrebbero ripensate con una previsione autonoma». E lo stesso avviene per le donne avvocate, quasi costantemente attaccate se difendono un uomo accusato di violenza. «Non una, ma due donne che lo hanno difeso. Vergognoso», «mi chiedo come possono due donne difendere una persona del genere» e ancora «ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza». E poi il climax ascendente: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati». Questi sono solo alcuni dei commenti rivolti sui social a due avvocate bresciane, attaccate dalla folla forcaiola e sessista solo per aver difeso e fatto assolvere perché il fatto non sussiste un 27enne di origini pachistane accusato di violenza sessuale nei confronti della sorella all’epoca dei fatti minorenne. E ad alimentare questa ostilità ci sono i media che non sanno o non vogliono veicolare i principi basilari di uno Stato di Diritto.

CONTINUA A LEGGERE QUI

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue