Così il caso Open riapre la battaglia sulle intercettazioni

 Valentina Stella Dubbio 9 novembre 2023

Accademici, magistrati e avvocati stanno focalizzando negli ultimi giorni l’attenzione su due recenti sentenze della Cassazione emesse della Sesta sezione penale che hanno annullato con rinvio provvedimenti dei Tribunali del Riesame di Milano e Reggio Calabria con cui si confermavano la custodia cautelare in carcere di due soggetti dediti al traffico internazionale di stupefacenti. La questione è rilevante perché attiene alle garanzie di acquisizione e utilizzazione delle prove, a maggior ragione se proveniente da una autorità estera. È talmente importante il tema che proprio il 3 novembre un’altra sezione penale della Cassazione, la Terza, ha chiamato in causa le Sezioni Unite per dirimere la faccenda. È evidente dunque che non esiste una univoca interpretazione e che i profili in gioco sono molti. Ma vediamoli nel dettaglio. Nel primo caso i gravi indizi di colpevolezza erano stati desunti dalle indagini effettuate nel nostro Paese tramite intercettazioni telefoniche e ambientali a cui si erano aggiunte le comunicazioni scambiate su una chat di messaggistica criptata che i pubblici ministeri italiani avevano ottenuto tramite l’emissione di un O.I.E  - Ordine d’Indagine Europeo – dall’autorità francese che aveva condotto una inchiesta sul narcotraffico insieme a belgi e olandesi e aveva ottenuto  la chiave per decifrare quei messaggi. Stessa cosa avvenuta nel secondo caso. Ma gli avvocati difensori dei due indagati, dopo il rigetto del ricorso da parte del Riesame, si sono rivolti alla Cassazione adducendo sostanzialmente le seguenti motivazioni: «per avere il tribunale del Riesame valorizzato il contenuto dei dati contenuti in atti qualificati come “documenti informatici”, acquisiti dall’autorità giudiziaria francese», tramite operazioni effettuate in Francia «senza il rispetto della normativa italiana in materia» e «senza l’osservanza delle regole di copie forensi a garanzia della genuinità del dato informatico vigenti dell’ordinamento italiano», «attività dunque illegittima». Nel secondo caso si sottolinea che «la prova è stata acquisita tramite un ordine di indagine europeo ed è da ritenersi illegittima in quanto l’ordine è stato emesso da un P.M. e non dal giudice delle indagini preliminari (che comunque non ha autorizzato neppure preventivamente l’acquisizione)». In pratica i difensori hanno sostenuto che quelli estratti dalle chat criptate non fossero semplici documenti ma corrispondenza privata come tutta la messaggistica elettronica e quindi sarebbe dovuta esserci l'autorizzazione da parte un giudice per acquisirli e non la semplice richiesta di un pm. E gli ermellini hanno accolto i ricorsi stigmatizzando la lacunosità delle motivazioni dei Riesame laddove fanno mancare «un preciso inquadramento normativo al mezzo di ricerca della prova di cui, volta per volta, occorreva autorizzare l’impiego. E ciò vale tanto più ai fini della verifica della utilizzabilità processuale di elementi di prova acquisiti all’estero». In tale quadro normativo «assume una rilevanza centrale» la decisione della Corte Costituzionale di quest’anno sul caso Renzi/Open: «I giudici hanno chiarito che il concetto di corrispondenza, `cui va assicurata la tutela accordata dall'articolo 15 della Costituzione, si estende a ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione». Inoltre secondo la Suprema Corte, nel pieno rispetto del diritto di difesa, l’indagato «deve avere accesso alla prova anche se acquisita all’estero ottenendo la versione originale e criptata dei messaggi e le chiavi di sicurezza necessarie alla decriptazione». Ora i Riesami dovranno chiarire tutti i dubbi sollevati, in pratica verificare se tutte le garanzie difensive sono state rispettate.  Per Mario Palazzi, della Dda di Roma, invece «l’Autorità giudiziaria italiana si è limitata ad acquisire, con l’unico strumento processuale che l’ordinamento nazionale conosce, materiale probatorio che si era già formato nell’ambito di un procedimento penale francese, senza che fosse intervenuta una qualunque forma di partecipazione dell’ufficio di Procura o delle forze di polizia nazionali alle fasi di formazione della prova. Come noto – spesso dimentichiamo di essere cittadini europei oltre che italiani – vige una presunzione di legittimità dell’attività svolta e spetta al giudice straniero la verifica della correttezza della procedura, peraltro nel caso di specie ampliamente scrutinata». «Sento poi invocare spesso– prosegue il pm -  nelle aule ma non solo, scenari orwelliani per l’ampiezza dell’acquisizione e per il segreto di Stato apposto sul metodo dell’acquisizione del dato. In realtà, gli atti acquisiti nei procedimenti consentono di verificare gli atti compiuti nell’indagine che ha condotto all’acquisizione del materiale informatico; quello che manca riguarda unicamente il modo con il quale si è riusciti a superare i meccanismi di protezione dei server e le modalità di acquisizione delle chiavi di decriptazione». Per Palazzi «è una informazione del tutto superflua ai fini della validità dell’atto e non mortifica certo il diritto di difesa». Il magistrato ha infine «la fondata convinzione che molti commentatori “tifosi” non abbiano letto con attenzione le decine di sentenze della Cassazione che si sono occupate delle acquisizioni tramite O.I.E. delle comunicazioni tramite piattaforme criptate (quelle utilizzate di default dalla criminalità organizzata), nell’ambito di procedimenti penali italiani per reati del tipo omicidio, sequestro di persona, narcotraffico per ingenti quantitativi et similia. Invocano il sacro graal della riservatezza e indefinite violazioni del diritto di difesa, omettendo però qualsivoglia considerazione sul principio del bilanciamento degli interessi del quale è custode tanto la giurisprudenza nazionale che quella sovranazionale. Forse non hanno neppure valutato con attenzione le recentissime sentenze appellate come “garantiste” – l’eterno abusato aggettivo – che in realtà censurano provvedimenti di merito eccessivamente stringati che non ricostruiscono compiutamente quanto processualmente accaduto. Insomma, per quanto possa valere la mia valutazione, non posso che rallegrarmi della rimessione della questione alle Sezioni Unite, nell’ottica di una auspicabile decisione che sgombri il campo da troppe confusioni e fraintendimenti».

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