Violato il diritto di difesa: ecco perché il processo alla Knox per calunnia va rifatto

 Valentina Stella Dubbio 30 novembre 2023

Rese note dalla V Sezione penale della Cassazione le motivazioni con cui il 12 ottobre ha accolto il ricorso dei legali di Amanda Knox  - Carlo Dalla Vedova, Mitja Gialuz, Luca Luparia e Martina Cagossi dell’Italy Innocence Project - contro la condanna a tre anni di reclusione per calunnia a Patrick Lumumba nell'ambito dell'inchiesta per l'omicidio di Meredith Kercher a Perugia. Contro tale richiesta si era espresso il sostituto pg e il legale di Lumumba. Ora si dovrà rifare un nuovo processo alla Corte di Assise di appello di Firenze. I fatti: in un primo momento la ragazza americana accusò il suo datore di lavoro dell’omicidio della compagna di casa inglese. Lumumba per questo finì in carcere per una decina di giorni, fin quando, grazie ad un testimone, si risalì alla sua innocenza. Il ricorso: esso è stato possibile grazie all’art. 628-bis cpp introdotto dalla Riforma Cartabia che consente la riapertura dei procedimenti penali “viziati” da violazioni convenzionali accertate dalla Corte di Strasburgo. Proprio la Cedu nel 2019 aveva ravvisato nel processo a carico della Knox per calunnia verso Patrick Lumumba alcune violazioni della Convenzione, in particolare degli artt. 3 e 6. La ragazza era vulnerabile, aveva solo 20 anni, scarsa conoscenza della lingua italiana, e si trovava da poco in Italia.  In pratica quello che avvenne nella Questura di Perugia quel 6 novembre 2007 -  l’assenza di un difensore, la mancanza di una assistenza linguistica di qualità, l’assenza di riposo, il prolungarsi dell’interrogatorio, l’ora notturna, il numero di poliziotti coinvolti e le modalità aggressive dell’esame - ha determinato uno stato di prostrazione e di condizionamento insopportabile nei suoi confronti. Aveva subìto «un vero e proprio supplizio» che la condusse a fare il nome di Lumumba «con la sola finalità di porre fine a trattamenti contrari ai diritti della persona indagata», scrisse il giudice monocratico che la assolse dal reato di calunnia ai danni di alcuni agenti di polizia giudiziaria, dell’interprete e del procuratore. Nonostante la decisione della Cedu, i difensori di Amanda Knox hanno evidenziato che la donna, oggi sposata e con una figlia, continua a subìre «gli effetti pregiudizievoli che la vedono ingiustamente condannata per calunnia». «La sua immagine, sul mercato mondiale, è associata a termini quale ‘colpevole’ e ‘bugiarda’», ha dovuto cambiare casa a Seattle, ha difficoltà a trovare lavoro in un luogo pubblico, continua a ricevere minacce, quando è venuta in Italia per un evento ha dovuto richiedere l’intervento della scorta. La decisione della Cassazione: «il Collegio ritiene – leggiamo nelle motivazioni – che non possa non prendersi atto della portata tranchant delle affermazioni della Corte Edu. Non si ritiene, infatti, che vi siamo ambiguità o difficoltà interpretative del dictum europeo che possano generare incertezze nel dare corso alla decisione: come chiaramente spiegato dalla Corte di Strasburgo, le violazioni accertate del diritto all’assistenza difensiva e linguistica hanno compromesso irrimediabilmente le dichiarazioni rese nella notte del 6 novembre». Secondo gli ermellini, le violazioni «hanno condizionato in modo decisivo il momento stesso della formulazione delle accuse a carico di Lumumba». Il commento dell’avvocato Mitja Gialuz: «Si tratta di una pronuncia pregevole e molto articolata destinata a divenire un precedente autorevole per la ricostruzione della nuova impugnazione straordinaria, applicata qui per la prima volta. Con riguardo al caso concreto, nel rinviare alla Corte d’assise d’appello di Firenze per un nuovo giudizio di merito, la Cassazione chiarisce che il giudice non potrà utilizzare le dichiarazioni rese da Amanda Knox nel corso dei ripetuti interrogatori condotti in violazione delle garanzie sancite dalla C.e.d.u.: sarà chiamato solo a verificare se il memoriale scritto da Amanda nella sua cella dopo l’arresto contenga dichiarazioni calunniose e se sia di per sé sufficiente a fondare una condanna».

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