Fiandaca: un vice ministro per le carceri

 di Angela Stella Il Riformista 15 settembre 2021

Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, il carcere ha bisogno di numerose riforme. A partire da un vice ministro che se ne occupi esclusivamente per arginare il rischio di «anarchia» nel funzionamento complessivo dell'amministrazione penitenziaria. Inoltre «si tratterà di vedere quale politica penitenziaria la Ministra abbia in mente per attuare i nobili principi che le stanno a cuore».  Insomma non bastano più i discorsi, occorre agire: molte realtà carcerarie rappresentano un inferno.

È stata un'estate molto difficile in carcere: ad esempio, dalla visite condotte dai radicali in Sicilia, è emerso che diverse strutture sono al limite della decenza. E le condizioni di vivibilità sono pessime. Anche gli agenti di polizia penitenziaria sono in fermento. Lei che analisi fa della situazione?

È risaputo che il periodo estivo è ancora più problematico e difficile per l'universo carcerario, e ciò per intuibili ragioni sia strutturali che psicologiche. Ad esempio, un articolo di Repubblica Palermo dello scorso 10 agosto ha dipinto a foschissime tinte la situazione carceraria siciliana, definendola un inferno. Come Garante sono ben consapevole che i 23 istituti di pena per adulti esistenti in Sicilia presentano condizioni di vivibilità complessiva abbastanza eterogenee e alcuni sono al di sotto di standard accettabili. Ma non è facile verificare se la situazione media delle carceri sia in Sicilia comparativamente peggiore che in altre regioni. Il problema, con alcune rilevanti eccezioni, riguarda l'intero territorio nazionale.

Molta attenzione si è sollevata sul tema carcere quando la Ministra Cartabia e il premier Draghi si sono recati a Santa Maria Capua Vetere. Un gesto di grande simbolismo ma a cui, per molti, non è seguita una azione concreta. Che ne pensa?

Le impegnative e apprezzabili dichiarazioni di principio che la Ministra Cartabia ha fatto e continua a fare in varie sedi lasciano sperare perché fanno presumere una sua volontà di passare dalla teoria a concreti interventi migliorativi. Si tratterà però di vedere quale politica penitenziaria la Ministra abbia in mente per attuare i nobili principi che le stanno a cuore.  

La Ministra Cartabia qualche giorno fa ha costituito proprio un "gruppo di lavoro per iniziare ad affrontare specifici problemi sul carcere, a legislazione invariata. Non miracoli ma è in atto un cammino". Basta questo?

L'ho appreso anche io dai giornali. Nella mia esperienza di Garante regionale, oltre che di professore di lungo corso, ho da tempo maturato una convinzione: ritengo cioè che anche rispetto all'universo carcerario puntare prevalentemente su modifiche normative, grandi o piccole che siano, può risultare riduttivo. Esistono profili problematici attinenti alla prassi penitenziaria che assumono un rilievo altrettanto determinante.

Professore ci spieghi meglio.

Solleverei un interrogativo provocatorio fino a un certo punto: chi stabilisce la politica penitenziaria da adottare, beninteso sempre nel quadro dei principi costituzionali, che vanno però a loro volta bilanciati e concretizzati anche nella prassi? In teoria la politica carceraria dovrebbe dettarla il Ministro della Giustizia, mentre il Dap a livello amministrativo centrale, i provveditorati regionali e infine, a livello ancora più decentrato, i singoli direttori di carcere dovrebbero limitarsi ad attuare e specificare sul piano tecnico amministrativo ed organizzativo le direttive politiche impartite dal Ministro. Senonchè, ho più volte avuto l'impressione, specie fino ad un recente passato, che un chiaro ed univoco indirizzo politico a livello ministeriale mancasse, e che di fatto venisse delegato al Dap e al suo capo il compito di individuare gli obiettivi prioritari da raggiungere nella gestione delle carceri. Ma non mi è parso che lo stesso Dap fosse in grado di individuare obiettivi chiari e coerenti. Questa mancanza di progettualità complessiva ha prodotto o ha rischiato di produrre conseguenze negative anche a livello periferico, sino al punto che è potuto accadere -  almeno questa è la mia impressione -  che ogni singolo direttore di istituto avesse una autonomia eccessiva nello stabilire ad esempio se porre in primo piano la tutela della sicurezza o se privilegiare l'obiettivo della risocializzazione, ponendo in secondo piano la sicurezza. Insomma un rischio di anarchia decisionale con eccessiva disomogeneità di orientamento da istituto a istituto.

E allora che fare professore?

Certo non è pensabile che un Ministro della Giustizia dedichi la maggior parte del suo tempo al sistema carcerario, non solo impartendo direttive politiche generali ma anche vigilando con continuità sulla loro attuazione e sul concreto funzionamento dell'amministrazione penitenziaria. Per questo nello scorso febbraio, in occasione della nascita del nuovo Governo, avevo scritto un articolo in cui speranzosamente prospettavo una idea forse però arrischiata, cioè di dar vita ad una figura di vice ministro destinata ad occuparsi a tempo pieno delle carceri, e dotata di una sufficiente autonomia di azione, rispetto allo stesso Guardasigilli.

In attesa di una riforma sistemica del carcere e dei primi effetti di quella parte della riforma del penale che incidono sull'esecuzione ma solo per i nuovi detenuti, cosa si dovrebbe fare per migliorare l'attuale situazione?

Per migliorare l'attuale situazione, si dovrebbero appunto avere idee chiare innanzitutto a livello politico governativo su quali siano in questo momento le priorità. Dal mio osservatorio - parlo a titolo personale -  una delle priorità dovrebbe consistere nel rivisitare criticamente l'obiettivo costituzionale della rieducazione aggiornandone senso e strumenti operativi con una rinnovata riflessione transdisciplinare, tenendo conto anche di un dato rilevante, cioè dell'accresciuta esistenza di patologie psichiatriche e soprattutto di disturbi e disagi psichici tra i detenuti. Per cui occorrerebbe incrementare, tra l'altro, il numero e migliorare la professionalità degli educatori e degli psicologi da destinare alle carceri. Più in generale occorrerebbe dedicare maggiore attenzione alla sanità penitenziaria: il passaggio alle Regioni della competenza in materia, apprezzabile in chiave politico-ideologica per avere assimilato almeno in teoria i carcerati ai cittadini comuni quanto alla tutela della salute,  fa purtroppo registrare situazioni molto disomogenee rispetto al livello di attenzione e di efficienza delle Asp territoriali nel garantire prestazioni sanitarie sia intra che extra murarie a favore della popolazione carceraria. Quindi servirebbe in proposito un più efficace raccordo e una più virtuosa interazione tra autorità penitenziarie statali e autorità sanitarie regionali. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi! Sarebbe poi necessario incrementare di molto le risorse innanzitutto economiche da destinare all'insieme delle attività trattamentali, a cominciare dal lavoro intramurario, se non deve rimanere affermazione retorica che il lavoro costituisce un elemento fondamentale del trattamento.

Ma sarebbe d'accordo con una decretazione d'urgenza?

Sarei senz'altro d'accordo sull'emanazione urgente di misure deflattive per consentire una uscita dal carcere del numero rilevante di soggetti che debbono scontare pene di breve durata, ma temo che questo obiettivo non sia facilmente raggiungibile a causa del perdurare di accentuate differenze di sensibilità e di orientamento in materia carceraria nelle stesse forze politiche che sostengono il Governo Draghi.

La riforma del processo penale è stata criticata da molti perché si è ceduto al compromesso politico, tralasciando le questioni di diritto. Le faccio questa premessa per due motivi. Primo: qual è il suo giudizio sulla riforma? Secondo: con questi presupposti e con l'attuale maggioranza è possibile sperare in una riforma strutturale del carcere?

Sulla riforma della giustizia già votata da un ramo del Parlamento ribadisco questo giudizio: è una riforma che presenta luci ed ombre, ma verosimilmente è quanto di meglio o di meno peggio si poteva concepire nell'attuale contesto politico. In merito all'altra domanda, a tutt'oggi mi sembra oggettivamente difficile avviare una riforma radicale del carcere proprio a causa di quelle perduranti differenze di orientamento politico a cui accennavo prima. È necessaria una preventiva pedagogia collettiva che ponga e diffonda le basi culturali di una nuova visione del carcere.

Un suo contributo è contenuto nel recente libro di  Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto dal titolo Contro gli ergastoli. Il suo intervento è incentrato proprio  sull'ipotesi abolizionista dell’ergastolo. Ci può anticipare qualcosa?

Non è facile sintetizzare in poche parole il contenuto del mio breve saggio. In estrema sintesi le dico che l'eliminazione dell'ergastolo presuppone in teoria una riscrittura integrale del sistema delle sanzioni penali. Non avrebbe senso limitarsi a sostituire la pena perpetua, ad esempio, con una detenzione a 35 o 40 anni perché la sostanza non muterebbe molto. Nello stesso tempo andrebbero progettate modalità esecutive di una pena sostitutiva temporanea (della durata ad esempio fino a 20 o 25 anni) davvero idonee, almeno potenzialmente, a soddisfare esigenze di prevenzione generale e speciale. Ma tutto ciò riguarda un auspicabile futuro e da Garanti o da  studiosi dobbiamo contribuire a prepare il terreno affinché il futuro auspicato diventi realtà.

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