Intervista a Fausto Giunta
di Valentina Stella il Dubbio 24 agosto 2021
Secondo il
professore avvocato Fausto Giunta, ordinario di Diritto penale nell’Università
di Firenze, dove è Direttore della Scuola di specializzazione per le
professioni legali, per garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario « la via maestra è il potenziamento
delle tecniche di depenalizzazione in concreto. Bisogna entrare nell’ordine di
idee che il sistema oggi non può aspirare, come in passato, a processare e
reprimere tutto il penalmente rilevante».
E sulla improcedibilità, al centro della riforma di mediazione della
Guardasigilli Marta Cartabia aggiunge: «senza una riduzione del numero
dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente
centrato».
Professore, l'Europa ci ha chiesto di ridurre del 25% la durata dei giudizi
penali. Sarebbe stato utile porre sul tavolo della discussione la strada di un
diritto penale minimo?
Il diritto penale minimo, fatto di poche
norme chiare e semplici, costituiva uno
degli ideali dell’età moderna. E non sono mancate legislazioni che si sono
avvicinate a questo modello. Il numero dei reati previsti nella parte speciale dai
codici penali preunitari e dal codice Zanardelli del 1889 era contenuto. Nel
suo disegno originario, anche il codice Rocco, sebbene criticato di essere
eccessivamente casistico, aveva una parte speciale meno estesa di quella
attuale. Senza considerare il profluvio di fattispecie incriminatrici extra codicem che si sono stratificate
nel tempo, un universo in continua espansione e cui massimi confini sono ignoti
a tutti, come il numero delle stelle del firmamento. Venendo alla sua domanda,
bisogna chiedersi se sia praticabile questo ritorno all’antico (che, lo dico
tra parentesi, conosce emulazioni recenti a livello comparatistico, ma al
prezzo di fattispecie affette da indeterminatezza). Certo la riduzione del
numero dei reati avrebbe effetti benefici sul numero dei processi e sulla loro
durata. Ma è la premessa che merita una attenta verifica. L’espansione del
“penale” non è un fenomeno solo italiano. È un prodotto della complessità
sociale. Cresce il ruolo del diritto e con esso anche quello della legislazione
penale. La particolarità della situazione italiana sta nel fatto che non
abbiamo ancora trovato il modo adeguato di gestire questa tendenza al cosiddetto
panpenalismo, al diritto penale totale, per usare un’efficace espressione di
Filippo Sgubbi.
Tra codice penale e leggi speciali di quanti reati, indicativamente,
possiamo essere accusati? Centinaia, migliaia?
Tanti, troppi. Non siamo in grado nemmeno
di stabilire esattamente il numero delle previsioni di reato attualmente
vigenti. Non si tratta di milioni di milioni, come recitava una reclame d’altri
tempi, ma di migliaia (in prevalenza fattispecie contravvenzionali extra codicem).
Luigi
Ferrajoli scrive che «solo un diritto penale ridotto alle figure di reato più
gravi -a quelli che Francesco Carrara chiamava i "delitti naturali” perché
considerati tali anche dai non esperti di diritto- può restituire credibilità
al diritto penale, facendone uno strumento di tutela che non può essere
disturbato né disturbare i cittadini per illeciti bagatellari che ingolfano
inutilmente, fino a paralizzarla, la macchina giudiziaria». Non trova che si
abusi del diritto penale, utilizzandolo come strumento per rispondere ai
bisogni emotivi dei cittadini?
Ho già manifestato il mio scetticismo sulla
praticabilità del minimalismo penale, soprattutto nella forma estrema
autorevolmente proposta da Luigi Ferrajoli, mentre sono d’accordo sulla depenalizzazione
delle bagattelle. Va tenuto conto, però, che tra le due categorie dei “delitti
naturali”, da un lato, e delle bagattelle, dall’altro, ve ne è una terza
estremamente numerosa che è composta da delitti cosiddetti artificiali, che non
possono essere espunti dal sistema repressivo. Si pensi ai settori del diritto
penale dell’economia, dell’ambiente, ai delitti contro la pubblica
amministrazione e l’amministrazione della giustizia, solo per fare alcuni
esempi. Va tenuto conto, poi, di un
altro aspetto: la depenalizzazione in astratto presuppone che il fatto
incriminato non sia in nessun caso meritevole di pena. Non si tratta di ipotesi
numerose. Ben più frequenti sono i fatti storici, corrispondenti alla
previsione incriminatrice, che non richiedono di essere puniti in concreto. In
questi casi la depenalizzazione “orizzontale” comporterebbe irragionevoli
lacune di tutele. La giusta risposta politico-criminale sarebbe una
depenalizzazione “verticale”, ossia affidata al processo e ispirata a una
concezione gradualistica dell’illecito penale. Faccio un esempio: il delitto di
truffa non è bagatellare in sé, ma può esserlo in concreto. Altro è la truffa
che causi un danno patrimoniale di milioni di euro, altro è la truffa che
offenda il patrimonio della vittima in misura trascurabile.
Il nostro sistema giuridico, politico, culturale
può ambire ad un diritto penale come extrema ratio?
Il diritto penale deve ispirarsi alla
sussidiarietà, ossia deve preferire, quando possibile, soluzioni alternative
alla pena nella risoluzione del conflitto sociale. Non si tratta soltanto di
una prospettiva feconda, ma di un imperativo categorico. Il diritto penale è il
diritto dei limiti sia alla libertà morale, sia a quella personale (perché
opera attraverso divieti presidiati da sanzioni ancora oggi in prevalenza
detentive). Ne consegue che il suo stesso impiego deve essere limitato nella
misura strettamente necessaria. Questo vale per la produzione delle norme
penali, ma anche per la loro applicazione. Purtroppo il legislatore e la
magistratura sono da tempo sedotte dalle sirene populistiche e credono che la
pena sia salvifica. In realtà da sola la pena non basta. Com’è stato ben detto
da Massimo Nobili, l’intervento punitivo è un’immoralità necessaria. L’irrogazione
di pena che non sia strettamente necessaria, è un’immoralità inutile quando non
è dannosa.
In merito alla questione delle pene, c'è una
tendenza ad aumentarle. Qual è il suo pensiero su questo?
Il panpenalismo sconfina spesso nel terrorismo
punitivo. La recente legislazione si caratterizza per comminatorie edittali
molto elevate tanto nel massimo, quanto nel minimo. Al confronto, il truce
codice Rocco sembra un’antologia di penitenze
da educande.
Fatto questo quadro, quali, allora, le soluzioni
possibili?
La via maestra è il potenziamento delle
tecniche di depenalizzazione in concreto, alle quali ho già fatto cenno, le
sole che possono garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario senza
smantellare la necessaria tutela sociale svolta dal diritto penale. Non siamo
di certo all’anno zero, ma quel che è stato fatto non è sufficiente. Bisogna
entrare nell’ordine di idee che il sistema oggi non può aspirare, come in
passato, a processare e reprimere tutto il penalmente rilevante. In relazione
ai reati più gravi non può ammettersi che la cifra oscura avvolga una criminalità destinata
a rimanere sommersa. Per i reati meno gravi, invece, la
repressione non può essere globale, ma va limitata alle ipotesi che richiedono
la risposta punitiva. Nella gran parte degli ordinamenti questa scelta è
affidata al pubblico ministero, che tuttavia è gravato da responsabilità
politica. Il discorso finisce per interessare il principio costituzionale
dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’ordinamento giudiziario. Nel nostro ordinamento, nonostante il
contrario disposto dell’art. 112 Cost., il pubblico ministero, selezionando in certa misura e di fatto i
reati da perseguire, effettua scelte politico-criminali. Si tratta – sia chiaro
– di valutazioni necessarie per la sopravvivenza del sistema, ma opache. La
prescrizione sostanziale ha cambiato natura, perché serve a consentire queste
scelte occulte: le notizie di reato che non vengono coltivate finiranno nel
cono d’ombra del dimenticatoio prescrizionale.
A proposito di prescrizione, secondo Lei la
riforma appena approvata alla Camera detta di 'mediazione Cartabia' raggiunge
l'obiettivo richiesto dall'Europa, soprattutto in riferimento
all'improcedibilità?
Come ricordava, il testo non è ancora definitivo e paga, in termini di coerenza, il prezzo di una faticosa mediazione tra le forze politiche governative. Limitando l’attenzione all’improcedibilità dell’azione, si tratta di uno strumento che viene utilizzato con funzione deflattiva. La sua ratio, però, è un’altra: assicurare la ragionevole durata del processo. Senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente centrato. E nemmeno quello della ragionevole durata: consentire al giudice di prorogare il termine dell’improcedibilità per alcuni reati, è come affidare la gestione del semaforo rosso all’utente della strada, ossia all’automobilista che è tenuto a fermarsi. Quanto ai reati soggetti alla disciplina ordinaria, il progetto risente negativamente dei pregressi rimaneggiamenti della prescrizione sostanziale. Un processo che durasse mediamente più di sei anni forse non ci porterebbe fuori dall’Europa, ma fuori dal buon senso sì.
In
merito al tema affrontato all'inizio di questa intervista come ci poniamo rispetto
agli altri Paesi europei?
In parte ho già risposto a questa domanda:
gli ordinamenti improntati alla discrezionalità dell’azione penale hanno una
valvola di sfogo, per così dire in entrata, che consente di dosare il carico
giudiziario, evitando il sovraccarico. Posso aggiungere che senza una buona
dose di pragmatismo il sistema non funziona. E ancora: il panpenalismo,
fenomeno diffuso anche all’estero, da noi è alimentato ora dalla logica della
lotta politica di cui diventa strumento, ora da un malinteso concetto di
legalità penale, anch’essa politicizzata, ossia piegata a logiche di efficacia
del controllo, piuttosto che di garanzia del favor libertatis. Mi
ripeto: è diffusa dentro e fuori del mondo del diritto, l’idea (anzi la
pericolosa illusione) che la società possa, anzi debba governarsi a colpi di
bastone. Ma la minaccia di pena è uno strumento di conservazione, non di
palingenesi sociale.
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