Intervista a Riccardo De Vito

 di Angela Stella Il Riformista 8 luglio 2021

 

Domani a Firenze a Palazzo dei Congressi, prende il via la tre giorni del XXIII Congresso Nazionale di Magistratura democratica, dal titolo "Magistrati e polis:  questione democratica, questione morale". Molti i temi all'ordine del giorno: le riforme Cartabia, i referendum Partito Radicale-Lega, la risposta della magistratura agli scandali Palamara e Csm. Non mancherà anche il tema relativo all'esecuzione penale. Ne parliamo con il dottor Riccardo De Vito, Presidente uscente di Md.

 

Cosa ha pensato quando ha visto il video relativo alle violenze subìte dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere?

 

L’ennesima riedizione di un orrore praticato con scientifica meticolosità, in un luogo – il carcere – che il dna di istituzione totale tende a rendere alegale. Le immagini di quanto accaduto nel carcere sammaritano sono del tutto simili alle istantanee dei fatti di Pianosa, di Sassari, di Asti, descritte nelle sentenze della Corte Edu (Labita, Saba, Cirino e Renne): corridoi di agenti attraverso i quali detenuti sono costretti a passare proteggendosi alla meglio dai colpi dei manganelli; ristretti faccia al muro; copertura istituzionali. Solo un occhio poco allenato al ‘sistema carcere’ può leggere in quei fatti una esasperata reazione a una situazione di tensione. Da quanto è dato capire sinora, non c'era alcuna rivolta in atto. Quella violenza, dunque, è stata pianificata a freddo e le tracce della progettazione organizzativa si scorgono immediatamente: le squadre mobili che arrivano da altri istituti, ‘vestite’ di tutto punto, sono un ingrediente storico della violenza in carcere.  

 

Secondo lei ci sono delle responsabilità politiche per quanto accaduto?

 

Viene da chiedersi almeno sulla base di quali fonti abbia parlato il Ministero in sede di interpellanza parlamentare (il famoso “ripristino della legalità”) e quale sia lo stato della circolazione delle informazioni sul carcere nel mondo dell’amministrazione penitenziaria, nel Dipartimento, nel ministero. Il silenzio è già una forma di responsabilità. Silenzio che è calato sulle rivolte, sulle cause, sui morti. Silenzio e opacità rendono possibile quello che abbiamo visto. Poi assistiamo allo scivolamento del carcere verso un problema di ordine pubblico – vedi direttive Ministro dell’Interno sulla gestione delle rivolte – e a un dibattito politico e pubblico che fa del detenuto “carne del nemico” sul quale tutto in fondo è possibile. Si tratta della medesima perversione ideologica che rende legittima la tortura sul terrorista, che alza la soglia di tollerabilità della violenza. C'è un problema di fondo: a vent’anni da Genova ci piace parlare delle polizie altrui, ma non abbiamo avuto ancora il coraggio di affrontare la cultura e i modelli organizzativi delle forze di polizia nostrane, i fatto che alla violenza si accompagni l’occultamento della stessa. Qui sta il banco di prova.

 

Cosa pensa invece della gestione dell'attuale Ministero della Giustizia?

 

Mi sembra una reazione forte, tempestiva, ineccepibile. Non solo per le parole nette – "tradimento della Costituzione" ha detto la Ministra Cartabia –, ma per la precisa richiesta di ricostruzione delle cause e della catena delle responsabilità e per l'adozione di misure che possano rendere effettiva questa ricostruzione: la sospensione di tutte le cinquantadue persone indagate, non solo di quelle indicate nel provvedimento del giudice. Vedremo ora il seguito.

 

La riforma del carcere non è all’ordine del giorno del Governo. Il presidente dell'Unione Camere Penali Italiane Gian Domenico Caiazza, dopo i fatti sammaritani, chiede di riesumare gli Stati Generali, traditi prima da Orlando e poi messi nel cassetto da Conte. Lei è d'accordo?

 

Come non esserlo? Recuperare i progetti delle commissioni Giostra e Pelissero, abbandonati in nome di quella che lo stesso Giostra definisce “sub-cultura punitivista”, comune alla destra e alla sinistra, sarebbe di straordinaria importanza per iniziare a fare di tutti le prigioni italiane (non solo delle eccellenze) un luogo vivibile. Credo che molte cose possano essere fatte a legislazione invariata. È pensabile che a fronte di oltre 52000 detenuti vi sia una pianta organica di soli 896 educatori, con in servizio appena 733 di loro? Non parliamo poi del numero risibile dei mediatori culturali e del sospetto con cui si guarda alla partecipazione della comunità esterna all’opera rieducativa. Ancora: è accettabile che i Direttori, che dovrebbero essere il perno dell’equilibrio tra area trattamentale e area della custodia, reggano uno, due e a volte tre istituti? Quale formazione è garantita alla Polizia penitenziaria? È necessario scegliere sempre il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – che è anche il capo della polizia penitenziaria –  tra i pubblici ministeri o non sarebbe meglio nominare un esperto conoscitore del carcere? Esperto conoscitore, faccio presente, da scegliere anche al di fuori del mondo della magistratura.

Dico questo anche perché non credo che la colpa sia di un ordinamento penitenziario vecchio. Il problema ancora una volta, come diceva profeticamente Gozzini, è quello del vino nuovo in otri vecchie. Da cambiare è la qualità (la cultura) delle botti, prima del vino.

 

Torna l’urgenza di parlare di codici identificativi degli agenti?

 

Non c'è dubbio che da un punto di vista di efficacia preventiva sia una delle migliori soluzioni organizzative. Si tratta anche di un contemperamento tra esigenze di indagine e verità – dal numero sul casco e sulla divisa riesco a pervenire al nome – ed esigenze di tutela del principio di non colpevolezza, posto che l’associazione tra numero e persona potrebbe essere conoscibile solo a chi indaga e a un numero limitato di persone. Insomma, non vedo altro strumento per tutelare quelli che la Ministra ha definito gli “agenti sani che rappresentano lo Stato”. Ogni strumento organizzativo/preventivo, tuttavia, deve fare i conti con la necessità di cambiare le culture: se accettiamo l’ideologia autoritaria della “corruzione per nobile causa”, del fine che giustifica i mezzi, non saranno gli identificativi a salvarci.

 

Domani parte il congresso di Md. Una sessione sarà dedicata alle riforme in discussione – Csm e processo penale - . Sul primo punto nella parte finale della relazione Luciani leggiamo: “La Commissione, peraltro, non può fare a meno di richiamare l’attenzione su ciò che nessun intervento riformatore può avere successo senza un profondo rinnovamente culturale, del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e – soprattutto – la magistratura”. Si tratta di una resa? Quali sarebbero le misure più urgenti da adottare?

Non la vedo affatto come una resa. A partire dai referendum Segni ci siamo illusi che riforme istituzionali e modifiche delle leggi elettorali, da sole, potessero cambiare le sorti di una democrazia bloccata e compromessa dalla corruzione. Non è stato così, se ancora oggi – e sarà un tema del congresso – denunciamo la crisi della democrazia. Vale lo stesso discorso delle vecchie otri: o si cambiano quelle mentalità, oppure tutto il vino nuovo rischia di essere buttato.

Quindi, venendo alle misure urgenti da adottare, credo che quello di cui ci sia bisogno – che il congresso intende proporre – è un’analisi lucida a tutto tondo degli ultimi vent’anni di associazionismo, di governo autonomo, senza riflessi autoassolutori. A partire da una nuova visione della “dirigenza”, mito creatore di illusioni, incomprensioni, carrierismi. Devo anche dire che la proposta della Commissione Luciani muove lungo direttrici condivisibili: mettere da parte il discorso del sorteggio; costruire un sistema elettorale con più libertà di scelta agli elettori, ma nel rispetto e nel riconoscimento della rappresentanza del pluralismo culturale che attraversa la magistratura.

 

Per quanto concerne la riforma del processo penale, ci sono stati diversi rinvii soprattutto a causa dei paletti posti dal Movimento 5 Stelle. Che analisi politica si può fare di questo scenario? Secondo Lei la Ministra Cartabia riuscirà a portare a casa la riforma come immaginata dalla Commissione Lattanzi?

 

La domanda sulle possibilità di successo andrebbero rivolte alla politica. Della maggioranza fanno parte forze politiche che tengono carica anche l’arma dei referendum, dunque siamo davvero davanti a un’incognita. Credo che la proposta Lattanzi, nel complesso, metta assieme garanzie ed efficacia dei processi. Si tratta quasi di un elemento positivo inedito. Su alcune proposte dovrà essere concentrata l’attenzione: le priorità per legge rischiano di minare il principio di obbligatorietà dell’azione penale, consegnandolo alle maggioranze parlamentari. È un tema che non va esorcizzato – adesso è nelle mani a volte poco trasparenti delle singole Procure –, ma seguito con attenzione: con quali strumenti e con quali numeri la maggioranza potrà dire prima questo e dopo questo, magari mettendo in coda i processi contro le violenze di Stato?

 

Il tema dei referendum giustizia è al centro del dibattito politico. Qual è la sua posizione in merito?

 

Detto con la franchezza che questo giornale non disprezza mai: trovo i quesiti referendari a tratti persino ingannevoli, come quello in materia di custodia cautelare e in materia di abolizione del decreto Severino. Constato poi che ai banchetti siedono radicali, Camere Penali e chi, all’indomani dei video sulle violenze, è stato quanto meno leggero nel portare la solidarietà agli agenti della penitenziaria. Ognuno credo che abbia un’idea diversa del progetto di giustizia che scaturisce da quelle abrogazioni. Compito della magistratura associata sarà far in modo che i cittadini e gli elettori siano bene informati di cosa vanno a votare. In questo senso non temo dibattito pubblico – auspicando che nessuno voglia toglierci il diritto alla parola –,  a cominciare da quello sulla separazione delle carriere. Siamo sicuri che un pm sottratto allo statuto di indipendenza della giurisdizione sia messo in condizione di svolgere in maniera effettiva le indagini sulle violenze di Stato? Certo, la riflessione a cui accennavo prima non può esimere dal rilevare che l’indipendenza del pm è stata in alcuni casi tradita dalla magistratura stessa: all’hotel Champagne aleggiava l’idea di un Pm eterodiretto. Dobbiamo fare i conti con tutto questo quadro complesso.

 


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