Intervista a Vittorio Manes

 di Angela Stella Il Riformista 30 gennaio 2021


di Angela Stella


 


Con il professore avvocato Vittorio Manes, Ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, commentiamo alcuni tra i più significativi passaggi emersi dalle relazioni dei massimi vertici dell'ordine giudiziario ieri all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2021.


 


Professore la parola 'credibilità' è risuonata sia nell'intervento del Primo Presidente di Cassazione che in quello del Procuratore Generale. La magistratura è sulla buona strada per essere nuovamente credibile?


 


Più che di credibilità della magistratura o del singolo magistrato penso si dovrebbe parlare di “accountability” – ossia di “responsabilità rafforzata” e affidabilità complessiva - e guarderei il problema in una prospettiva sistemica,  misurata in termini di fiducia dei cittadini nel sistema giustizia, fiducia che gli indicatori segnalano a livelli davvero minimi.  In questa prospettiva, mi pare difficile negare lo stato di crisi del sistema della giustizia penale, perché la sua presenza è eccessivamente pervasiva, la sua amministrazione è sovraccaricata da aspettative che non riesce ad assolvere, e la sua gestione concreta è ampiamente discrezionale se non persino arbitraria.


Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione del giustizia è un “servizio”, una “public  utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento, tempi ragionevoli, proporzione dell’intervento sui diritti fondamentali incisi - specie quando l’ingerenza statale è altamente invasiva come lo è la sottoposizione ad un processo penale – e assicurare, soprattutto, garanzie effettive non solo di certezza della pena, ma di certezza di evitare la pena e il processo a chi è innocente.


 


Sul "Caso Palamara" Ermini ha detto «il doveroso accertamento delle responsabilità di singoli magistrati non deve trasformarsi in un modo per liquidare fatti dolorosi e inquietanti». 


Lei ha l'impressione invece che qualcuno voglia fare di Palamara un capro espiatorio e chiudere la questione?


 


È una vicenda nella quale non voglio e non posso entrare. Mi limito a dire che ci sono diversi livelli di analisi e di problemi, che emergono, non certo riducibili ad episodi contingenti o a singole persone.


 


Sempre Ermini ha parlato di valutazione professionale dei magistrati auspicando che non sia automatica. Noi su questo giornale abbiamo aperto il dibattito sul tema. Lei che ne pensa?


 


Penso che sia giusto alimentare un dibattito serio sul tema, partendo da una considerazione molto semplice e forse banale: un giudice che scrive 10 sentenze di cui 8 vengono riformate in appello o in Cassazione non può fare la stessa carriera di un suo collega che ottiene 8 conferme; analogamente, un pubblico ministero che istruisce 10 processi di cui 8 finiscono con l’assoluzione non dovrebbe avere la stessa valutazione di carriera rispetto al suo collega che ottiene 8 condanne. Non diversamente, del resto, da come sarebbe valutato un avvocato o un chirurgo se avesse analoghe percentuali di risultati negativi o positivi. Questi dati dovrebbero entrare nelle valutazioni di professionalità, secondo un approccio meritocratico che andrebbe a vantaggio dei magistrati più attenti, scrupolosi, studiosi, equilibrati: e, mi creda, non sono affatto pochi.


Sembrerà banale, ma ad oggi non disponiamo neppure di un sistema che consenta al singolo magistrato o pubblico ministero di “monitorare” gli esiti dei propri procedimenti, anche solo per “autovalutare” il proprio operato.


 


In questi ultimi giorni è scoppiato il caso Gratteri per le sue improvvide dichiarazioni al Corriere della Sera. Salvi sembrerebbe avergli replicato indirettamente: «Non sempre al clamore delle indagini e degli arresti ha però corrisposto pienamente la conferma nelle fasi successive. Questa discrasia, quando significativa, dovrà essere oggetto di attenta analisi in sede di ricerca dell’uniformità nell’esercizio dell’azione penale e quindi anche nelle indagini preliminari». È d'accordo?


 


Anche qui non voglio replicare a singole affermazioni dell’uno o dell’altro, ed entrare in polemiche personalistiche che interessano, forse, relativamente. Ma la mia impressione è che occorra una riflessione molto seria sulla autonomia della giurisdizione: è curioso che si rivendichi a gran voce – talvolta anche quando non è affatto messo a repentaglio - il valore dell’“indipendenza della magistratura” e non ci si accorga di quando a rischio sia  oggi, in realtà, l’indipendenza e l’autonomia della giurisdizione. Ci si è accorti che la giurisdizione sta perdendo progressivamente la propria autonomia, ormai erosa ed aggredita su ogni versante?


Sotto un primo aspetto, la giurisdizione è iper-sollecitata da una overdose punitiva e da un legislatore penale che non sa più rinunciare a nulla, dove la parola “depenalizzazione” è ormai diventata un tabù, e che risponde ad ogni fenomeno e ad ogni emergenza – vera o apparente che sia – con un sovradosaggio di reati e pene; senza che il sistema abbia introdotto alcun filtro reale che consenta di “differenziare” e selezionare in concreto un numero abnorme di notizie di reato (gli istituti come l’irrilevanza penale del fatto e la messa alla prova dovrebbero essere grandemente potenziati, perché hanno avuto una incidenza minimale). In questo quadro, il carico abnorme di procedimenti e fascicoli comprime la possibilità di esame attento e ponderato che è il presupposto di una valutazione che voglia dirsi davvero “autonoma”, schiacciando in molti casi il giudicante – con una specie di effetto “anchoring” – su una ipotesi accusatoria il cui avallo è ritenuto più “rassicurante” e meno problematico di una smentita, ipotesi accusatoria a sua volta frequentemente declinata – senza alcuna seria rielaborazione critica - sulle valutazioni della polizia giudiziaria, con un “effetto domino” particolarmente nefasto.


 Sotto altro versante, la giurisdizione – oltre che sistematicamente sovraesposta da aspettative politiche che non le pertengono - è sempre più condizionata da una “spettacolarizzazione” delle indagini e del processo penale che finisce con l’espropriare la giustizia dalle mani dei giudici, trasformando la sentenza in una mera richiesta di asseverazione di una condanna già pronunciata dai media: condanna in assenza della quale il primo colpevole diventa, fatalmente, il giudice, che quando decide deve “dire da che parte sta”.


 


 


Una inchiesta di Ferrarella ieri sul Corsera aveva questo titolo: "In quattro processi su dieci, assoluzione in primo grado". Come commenta questi dati?


 


L’articolo di Ferrarella, a mio avviso, ha il notevole pregio di aver messo in luce un gap che gli operatori conoscono da tempo, nonostante non vi siano dati ufficiali: a fronte di un numero elevatissimo di procedimenti penali, si registra un altrettanto elevato numero percentuale di assoluzioni, un diaframma troppo ampio perché sia garantita l’acconutability del sistema e la fiducia dei cittadini. Un sistema come quello attuale ha un elevatissimo coefficiente di sensibilità, e un bassissimo coefficiente di specificità e accuratezza, dunque produce troppi “falsi positivi”; e danni enormi alle vite personali, familiari, professionali, oltre che alle carriere politiche e imprenditoriali delle persone travolte nel procedimento penale, danni che non saranno mai risarciti neppure dopo una assoluzione definitiva (ed anche la interessante riforma sull’indennizzo rappresenta, come ben sappiamo, solo un “farmaco sintomatico” volto a lenire in minima parte gli effetti ma non a curare la patogenesi).


 


 A proposito di dati non sarebbe necessario conoscere la percentuale di accoglimento da parte dei gip rispetto alle misure cautelari richieste dai pm?


 


Anche questo sarebbe, certamente, un contributo di trasparenza.


 


Il Primo presidente di Cassazione è tornato ancora sui «tempi del giudizio [che] devono essere tali da rendere la durata complessiva del processo “ragionevole”». Qualche giorno fa, prima di essere in bilico come Ministro, Bonafede stava lavorando ad una proposta per terminare i tre gradi di giudizio in 5 anni e non intervenire così sulla riforma della prescrizione. Secondo Lei è plausibile un simile ragionamento?


 


Sarebbe un traguardo indubbiamente apprezzabile, anche se mi sembra un obiettivo del tutto utopistico allo stato, specie quando si è di fatto eliminato quello che era l’unico “freno di emergenza” ad un processo senza fine, ossia la prescrizione.


I nessi tra l’istituto della prescrizione e diritto ad un processo che abbia una ragionevole durata sono stati anche di recente evidenziati dalla Corte costituzionale, persino nella sentenza n. 278 del 2020, quando ha riconosciuto come l’istituto della prescrizione – sebbene abbia una natura sostanziale – “possa proiettarsi anche sul piano processuale, concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo” (art. 111, secondo comma, Cost.).


Una volta sterilizzata la prescrizione, come si pensa di garantirlo il time-limit dei cinque anni, con la responsabilità disciplinare del magistrato indolente? 


 


 


Nella sua relazione, il Pg Salvi ha dato spazio anche alle rivolte in carcere e ai problemi della  pandemia negli istituti di pena. Secondo Lei in questi mesi non si è persa  un'occasione per affrontare il tema della riforma strutturale del carcere?


 


 


Sarebbe stato urgente anche qui adottare misure, e misure non contingenti ma strutturali: la pena è una risorsa scarsa, e la pena del carcere lo è ancora di più, e dovrebbe essere centellinata specie per garantire un carcere “umano”, e standard dai quali l’Italia è ancora tristemente lontana. 


Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue