Connazionali prigionieri all'estero: intervista all'avvocato Francesca Carnicelli

 Valentina Stella Dubbio 3 febbraio 2024

 

Quante Ilaria Salis, ossia quanti connazionali si trovano prigionieri all’estero e in che condizioni sono? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Francesca Carnicelli, legale della Onlus Prigionieri del Silenzio che dal 2008 si occupa della tutela dei diritti umani degli italiani prigionieri oltre confine.

 

Quanti sono i connazionali detenuti all'estero?

Dai dati forniti dal MAE al dicembre 2022 sono 2058 ma è un numero non del tutto affidabile perché spesso i cittadini decidono di non far avvisare l’Ambasciata o il Consolato italiano del loro arresto perché temono che possano seguire ulteriori procedimenti in Italia,  o per paura che vengano avvisati i parenti anche se non vi è il suo consenso.

 

Qual è il Paese con maggiori detenuti italiani?

La Germania con 713 detenuti tra condannati e in attesa di giudizio o di estradizione.

 

Quali sono i principali problemi che le famiglie si trovano a dover affrontare?

Avere un contatto con il proprio congiunto, soprattutto se non sono stati attivati i canali consolari. Poi è complicatissimo recarsi a colloquio in carcere per la distanza e per l’organizzazione che occorre; abbiamo avuto casi di persone che sono arrivate fino negli USA vedendosi negato l’accesso all’Istituto penitenziario per questioni meramente burocratiche che non erano state comprese o, peggio, non comunicate al momento della richiesta di autorizzazione. La barriera della lingua è un altro grave problema perché impedisce ai familiari di interloquire con le Istituzioni locali, la direzione del carcere ed anche, quasi sempre, il legale nominato dall’indagato/imputato. Forse non tutti sanno che l’Italia non prevede, in questi casi, l’istituto del Patrocinio a spese dello Stato e anche gli aiuti che possono essere concessi sono solo facoltativi.

 

Quali sono i Paesi in cui si riscontrano le peggiori condizioni detentive?

Probabilmente il Sud America in generale è la parte di mondo peggiore: condizioni igieniche terribili, assenza quasi totale di assistenza sanitaria, elevatissima corruzione interna al carcere e violenza tra detenuti. Condizioni degradanti ci sono anche in alcune carceri degli Stati Uniti dove, ad esempio, i bagni e i servizi igienici non hanno porte e chi li usa è alla vista di chiunque passi.

 

Esistono trattati internazionali validi per tutti i Paesi che possono essere attivati in questi casi?

L’Italia ha aderito alla “Convenzione del Consiglio d'Europa sul trasferimento delle persone condannate”, che prevede la possibilità per i detenuti definitivi di scontare la pena nel proprio Paese di origine e non in quello della condanna. Le Nazioni firmatarie sono 68 tra cui anche Stati extra UE. La procedura è all’apparenza semplice ma, nella pratica, diventa farraginosa per le modalità burocratiche prima che politiche. In ogni caso, stante la discrezionalità rimessa alle varie Nazioni di concederla, la procedura può essere bloccata anche da motivi politici. L’Italia inoltre ha stipulato varie convenzioni bilaterali tra cui ad esempio Albania, Cuba, Egitto, Thailandia e diversi altri Stati.

 

Ci sono altri detenuti italiani in Ungheria?

Sempre stando ai dati al 31.12.2022 i detenuti sono 17, di cui 5 in attesa di giudizio.

 

Quando Silvia Baraldini fu riportata in Italia si parlò di un accordo con gli Usa per la mancata estradizione dei piloti che causarono la strage del Cermis. Secondo la sua esperienza serve più la diplomazia o il clamore mediatico?

Ritengo che non si possa dare un giudizio generale. Non conosco il caso Baraldini se non attraverso quanto riferito dai media. Nella mia esperienza però posso dire che l’attività diplomatica è fondamentale e che, spesso, dovrebbe essere più intensa ed incisiva; il clamore mediatico sovente è di aiuto sia per sollecitare la politica interna e la diplomazia sia per mettere in difficoltà l’altro Stato. Ritengo però che possa anche essere estremamente pericoloso perché rendere pubbliche notizie vere o, peggio, false può inceppare i delicatissimi meccanismi della diplomazia. Credo che una certa attenzione mediatica sia sempre utile mentre il clamore può essere pericoloso. Ad esempio si focalizzano tutte le energie su un caso trascurando gli altri e ponendo altri connazionali, nelle medesime condizioni del caso “famoso,” nella condizione di divenire invisibili vittime di rappresaglie.

 

Esistono detenuti di seria A e detenuti di serie B?

Purtroppo sì. Il primo discrimine dipende dalle condizioni economiche e sociali del detenuto. Il secondo dal livello di attenzione che il nostro Stato dà al singolo caso e dall’efficienza del circuito diplomatico che incidono fortemente sulle condizioni di detenzione. Ad esempio, fornendo direttamente vestiario e beni di prima necessità, farmaci che l’Istituto penitenziario non dà, medici per visite specialistiche, senza contare che una presenza continua consente di verificare se il detenuto subisca torture o violenze.

 

Quali sono i casi più complessi che la vostra associazione ha seguito?

In questi 15 anni abbiamo visto di tutto ma, a mio parere, i due casi più complessi sono stati quelli di Roberto Berardi in Guinea Equatoriale e quello Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni in India. Roberto ha subìto condizioni detentive orribili e torture gravissime, più volte abbiamo temuto per la sua vita. Tomaso ed Elisabetta si trovavano detenuti in India nel periodo della vicenda dei Marò: da innocenti sono stati condannati all’ergastolo in due gradi di giudizio e il processo innanzi alla Corte Suprema si è tenuto in un momento in cui la tensione con l’Italia era altissima, fortunatamente sono stati assolti e rimpatriati. In questo momento sto seguendo, come legale della famiglia, il caso di Fulgencio Obiang Esono, anche lui detenuto in Guinea Equatoriale, vicenda drammatica e preoccupante.

 

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