‘La vendetta del boss, l’omicidio di Giuseppe Salvia’, speranza e perdono nel libro di Mattone

 di Angela Stella Il Riformista online 29 giugno 2021

Antonio Mattone ne "La vendetta del boss - L'omicidio di Giuseppe Salvia" (Guida Editori, pag. 517, Euro 20) «è spinto a scrivere la storia» di un servitore fedele dello Stato «da una passione: quella per il dramma della vita carceraria che, ben lontano dall'antica ma sempre valida prospettiva di Cesare Beccaria, riproduce la criminalità, più che rinnovare le persone». Così scrive Andrea Riccardi, Fondatore della Comunità di Sant'Egidio, nella prefazione del libro che ripercorre la storia del vice direttore del carcere napoletano di Poggioreale ucciso il 14 aprile 1981 dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Il volume verrà presentato domenica 4 luglio, con la presenza anche di un nostro giornalista, alle ore 17 presso la sala della Fondazione Premio Napoli a Palazzo Reale all'interno della più ampia manifestazione culturale “NapoliCittàLibro – il salone del libro e dell’editoria di Napoli”. Cutolo, morto lo scorso febbraio a 79 anni di cui 57 trascorsi dietro le sbarre, aveva sempre negato di essere stato il mandante di quel barbaro assassinio, anche se la giustizia lo aveva condannato all'ergastolo. Poi, come racconta Mattone, quando lo incontrò nel 2019 nel carcere di Parma dove era rinchiuso al 41 bis, Cutolo confessò per la prima volta: «si, l'ho fatto io l'omicidio di Salvia. Lui si accaniva contro di me, non so perché, non lo faceva con gli altri, ma mi faceva sempre perquisire. E per questo gli diedi due schiaffi».  In realtà, come si evince dalla numerose testimonianze raccolte nel libro, Salvia non si accaniva contro nessuno, faceva semplicemente rispettare i regolamenti: «aveva una grande umanità e, nello stesso tempo, manteneva un fermo rispetto delle regole. Non era un burocrate esecutore, né un ingenuo sognatore. Il suo atteggiamento fin dall'inizio fu di grande ascolto e comprensione per i problemi dei carcerati e di coloro che lavorano all'interno della struttura», ossia il carcere di Poggioreale.  Tra gli anni Settanta e Ottanta l'istituto di pena, una tra più sovraffollati ancora adesso (su 1476 posti regolamentari disponibili, ci sono 2053 detenuti), era una vera palestra di delinquenza, dove a comandare erano i detenuti eccellenti, in primis il boss Cutolo, con la complicità di diverse guardie carcerarie, deferenti più verso il potere criminale che verso la legge, o semplicemente impotenti e impaurite dalle possibili ritorsioni. Eppure in quel contesto di profondo degrado sociale, Salvia non si è girato mai dall'altra parte, ha sempre lavorato per un carcere giusto da un lato e rigido nel rispetto delle norme dall'altro. Il funzionario fu colui che «non volle fare il penalista per non avere a che fare con i delinquenti» ma allo stesso tempo «la sua indole non gli avrebbe consentito mai di condannare qualcuno». E allora scelse di stare lì dove la pena si esegue, «incarnando quella che Benedetto Croce definì 'la religione del dovere'»,  e tentò con tutte le sue forze, spesso lasciato solo da chi stava sopra di lui, affinché il potere dei boss non prevalesse su quello dello Stato. Ma pagò con la sua vita per questo: mentre guidava sulla tangenziale di Napoli per tornare a casa dall'amata moglie Giuseppina, conosciuta quando lei aveva solo 15 anni, fu crivellato da diversi colpi e morì sul colpo, lasciandola vedova a solo 33 anni.  Tuttavia il suo sacrificio fu presto dimenticato. Riccardi ricorda: «l'assassinio di un vice direttore, che voleva un carcere 'legale', si scontrava con una pratica diversa che, in alcuni casi, sembra utile alla politica. Confondere e dimenticare sono il modo di sopravvivere per una cultura politica carica di contraddizione». Ed infatti pochi giorni dopo l'uccisione di Salvia, venne rapito dalle Br l'assessore regionale democristiano Ciro Cirillo, «per la cui liberazione pezzi di Stato e della stessa Dc sollecitarono Cutolo. L'autorevolezza di questi, già forte dentro Poggioreale, in crescita in Campania, ebbi quasi una consacrazione politica. Il suo intervento, prima negato, è stato poi acclarato. La vicenda Cirillo - nota l'Autore - con l'intervento di Cutolo fece scivolare in ombra l'omicidio Salvia».  In più, evidenzia Mattone, ai funerali «l'assenza del ministro di Grazia e Giustizia non passò inosservata, così come quella del Cardinale Ursi». Ma l'aspetto più sorprendente fu che nel processo a carico degli esecutori e dei mandanti dell'omicidio «lo Stato, non costituendosi parte civile, dopo averlo lasciato solo in vita, anche da morto ne prese le distanze». A ciò si aggiunge che solo nel 2013 il carcere napoletano venne finalmente intitolato a Giuseppe Salvia. Tuttavia il libro non è solo narrazione di un dramma personale: è il racconto del rapporto tra camorristi e Br, dei cambiamenti di prospettiva nei confronti dei detenuti a seguito del Concilio Vaticano II per cui «non dovevano essere più considerati persone da evitare ma tutto sommato erano dei bisognosi anche loro», dei sanguinosi fatti avvenuti nel carcere nella notte del tragico terremoto che sconvolse l'Irpinia, dell'entrata in prigione con iniziale scettismo degli educatori, è una critica ai falsi pentiti, è la denuncia delle torture della 'cella zero', ma soprattuto è una luce sul senso rieducativo della pena e una denuncia degli ostacoli che impediscono ancora oggi l'attualizzazione dell'articolo 27 della Costitizione. In uno sfogo con il giornalista del Mattino Enzo Perez, Salvia disse: «Le condizioni di vita nel gigantesco carcere sono proibitive, a volte impossibili per i detenuti e gli agenti di custodia. Un bubbone di malessere nel quale fermentano e si sprigionano solo sentimenti di vendetta, di odio e di morte. Come si fa a parlare di rieducazione e reinserimento futuro nella società in questo modo?». C'è un punto ancora più apprezzabile del libro per chi, come questo giornale, negli ultimi mesi di vita di Raffaele Cutolo - che fu detenuto dal 25 marzo 1971 e messo tra i sepolti vivi del 41 bis dal 20 luglio 1992  - ha denunciato un accanimento nei suoi confronti da parte di uno Stato più di vendetta che di Diritto, avendogli negato non la liberazione bensì la detenzione domiciliare per motivi di salute e avendolo lasciato morire solo e gravemente ammalato nel carcere, lontano dalla sua famiglia. Ebbene, anche l'autore ha «avuto la sensazione di un accanimento inutile contro questo vecchio che, è vero, forse è stato il più grande criminale italiano di tutti i tempi, ma le restrizioni che subisce sono troppo disumanizzanti. Anche lui sa bene che non può aspirare alla libertà, ma si potrebbe riservare un trattamento più umano, che certamente non cancellerebbe le sue colpe e le sue condanne».  Le pagine migliori sono quelle dedicate alla famiglia di Giuseppe Salvia  e alla loro riconciliazione con chi sbaglia. Nonostante il male subìto, Riccardi nella prefazione scrive che «Claudio, figlio di Giuseppe, non coltiva odio verso Cutolo ed è sensibile alla condizione dei carcerati. Mattone è rimasto colpito dalla dignità e dalla capacità di perdono della famiglia Salvia». Tant'è vero che ormai da diversi anni lui e sua madre partecipano al pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio a Poggioreale: Claudio, che oggi lavora in prefettura, mentre suo fratello maggiore Antonino è impiegato nell'amministrazione penitenziaria come formatore del personale, «aveva avuto  - scrive Mattone - un senso di scetticismo sul recupero dei detenuti, soprattutto di quelli incalliti. Li considerava irrecuperabili e quella casa circondariale era il luogo dove riteneva fosse radunato il peggio della società». Ma decise comunque di varcare «quel portone angosciante e, senza darne troppa pubblicità, servì a tavola i carcerati e riuscì anche a scambiare qualche parola con alcuni di loro. Quando uscì dal carcere aveva il morale a mille: "camminavo a due metri da terra - ricorda  -mi sentivo il cuore pieno ed ero soddisfatto della giornata. Aveva avuto contatto con una realtà che pensava completamente diversa. I carcerati erano persone come tutte le altre e gli vennero in mente le parole del padre, attraverso i racconti della madre: quando non si ha una guida, una famiglia che ti educa, allora è facile perdersi». Lo stesso disse la madre: «erano persone che avevano sbagliato ma vedevo nei loro occhi la speranza di uscire e riabilitarsi». Lo stesso concetto di 'speranza' richiamato ormai nelle sentenze sia europee che nazionali per denunciare l'incompatibilità dell'ergastolo ostativo con la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali e con la nostra Carta Costituzionale. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue