Intervista a Silvia Albano

 Angela Stella Unità 5 dicembre 2023

 

Silvia Albano, giudice della sezione immigrazione del tribunale di Roma, è stata eletta presidente di Magistratura democratica in un momento molto critico per i rapporti tra politica e magistratura.

Crosetto in Aula ha letto le dichiarazioni del suo Segretario Musolino al congresso di Area. Come si spegne il fuoco della polemica?

Credo che siano state estrapolate delle frasi dal contesto di un intervento più ampio e ciò abbia portato a fraintendere il senso dell’affermazione. Cosa significa il ruolo “anti maggioritario” della giurisdizione l’ha spiegato molto bene Vladimiro Zagrebelski su “La Stampa”. È un termine usato dai costituzionalisti e dai giuristi in generale, non solo in Italia, e riguarda i limiti che il potere di legiferare trova nella Costituzione e nelle Carte Sovranazionali. Alla giurisdizione i costituenti hanno assegnato il compito di garantire il rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona, inviolabili anche da qualsiasi maggioranza, ed è per permetterne lo svolgimento che ha previsto lo statuto di indipendenza della magistratura. Non un privilegio, ma garanzia per i cittadini. Del resto l’art. 1 Cost. stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, ma che questo “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: tutta la Costituzione è un dizionario di recinti al potere delle maggioranze, di tutte le maggioranze.  Credo che se il confronto si spostasse su questi temi non dovrebbe esserci ragione di polemica.

Les Juges son la bouche de la loi”: perché non è così per voi?

È un concetto superato da tempo nella cultura giuridica. Era il motto di Robespierre, superato dalla moderna cultura liberale. L’attività interpretativa è un’attività complessa, diventata ancora più complessa in un’epoca in cui la produzione normativa non è solo nazionale. Esiste un sistema di fonti normative di cui alcune sono sovraordinate (Carta dei Diritti fondamentali della UE, Convenzione Edu, solo per citarne alcune), che non possono essere violate dalle leggi ordinarie. Il giudice ha prima di tutto il dovere di interpretare le leggi alla luce di quelle, solo se un’interpretazione conforme non sia possibile, può sollevare questione di costituzionalità o proporre una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Ma questa ci dice anche che ogni giudice dell’Unione è anche un giudice europeo e che quando una norma interna viola le norme europee direttamente applicabili negli Stati membri il giudice ha il dovere di disapplicarle. L’attività interpretativa non è meccanica, le norme hanno spesso clausole generali che devono essere riempite di contenuti. Si pensi ad esempio alle numerose clausole “umanitarie” previste nel diritto dell’Unione o all’attività interpretativa che richiede un bilanciamento tra diversi diritti di rango costituzionale che possono nel caso concreto confliggere tra loro. Il risultato di questa attività non è univoco, il dibattito tra i giuristi è sempre stato molto vivace, anche per questo sono previsti diversi gradi di giudizio.

Non pensa che il dibattito tra politica e magistratura debba porre nel cassetto quanto accaduto con Tangentopoli?

Tangentopoli ha lasciato sul terreno un discorso pubblico distorto secondo me; il conflitto politico spesso non è più tra forti e deboli, visioni del mondo di destra e di sinistra, oppressi e oppressori, ma tra condannati e non condannati, imputati e non imputati. Mi pare che anche il dibattito nel campo del politico, per così dire, sia diventato preda del giudiziario. Al di là della commissione dei reati da parte di politici, la riflessione della politica dovrebbe essere sulla responsabilità politica dell’agire, non solo sulla responsabilità penale. Credo che questo limite del modo di fare politica debba essere superato e consentirebbe di assimilare in maniera più fisiologica le normali vicende giudiziarie in cui la politica può incappare.

I ricorsi del governo avversi alle ordinanze della sezione immigrazione del Tribunale di Catania verranno discussi il 30 gennaio alle Sezioni Unite. Il presidente dell’Anm all’assemblea ha commentato: ciò “fa capire quanta ingiustizia ci sia stata in quegli attacchi nei confronti di questi quel magistrato”.

I provvedimenti si possono sempre criticare, per carità, la critica dei provvedimenti ha fatto crescere la giurisdizione e ha favorito la sua evoluzione. Il problema è quando non si critica il contenuto del provvedimento ma si attacca la persona del magistrato, facendo intendere che strumentalizzi la sua attività giurisdizionale in funzione delle proprie idee politiche. Questa è un’accusa gravissima.

Che idea si è fatta dell’operare di questo Governo verso la magistratura? Da un lato congelano la separazione delle carriere, dall’altra però vi attaccano, accusandovi di fare opposizione giudiziaria.

La magistratura non fa opposizione giudiziaria, interpreta le norme sulla base dell’ordinamento giuridico, che è un sistema complesso. E questo può portare a risultati che non corrispondono ai desiderata del governo di turno. È la fisiologia dell’equilibrio dei poteri disegnato dei costituenti. Poi vedo una certa contraddizione in alcune affermazioni. Si accusa solo una certa parte della magistratura di essere vicina ad alcuni ambienti politici, ma abbiamo un sottosegretario alla presidenza del consiglio che viene direttamente dalla Corte di Cassazione e da molti anni fa avanti e indietro tra la giurisdizione e l’impegno politico attivo, anche in un partito. Abbiamo avuto un sottosegretario alla giustizia che veniva dalla giurisdizione ed era un leader della corrente attualmente maggioritaria della magistratura. Mi pare che le accuse alla magistratura di fare politica e di non apparire imparziale vengano mosse un po’ a senso unico. L’associazione Rosario Livatino - di cui è stato vice presidente l’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio e animata da tanti magistrati di quella parte della magistratura che viene definita come quella che svolge in silenzio il proprio lavoro - tra le campagne che rivendica di aver svolto c’è l’appello contro il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili (divenuto legge dello Stato) e il disegno di legge Zan. Ma è giusto: i giuristi, la magistratura hanno sempre partecipato al dibattito pubblico sulla giustizia e non a caso le associazioni della magistratura e i singoli magistrati vengono auditi nell’iter di approvazione delle leggi.

Pensa che questo Governo stia abusando del diritto penale?

Abbiamo assistito a una proliferazione di nuove fattispecie di reato e all’aggravamento delle pene già previste in altri casi, come se tutto si potesse risolvere col diritto penale, in un Paese nel quale abbiamo oltre 30.000 fattispecie di reato. Lo vedo un po’ in contraddizione col programma del Ministro Nordio, che in un’ottica garantista alludeva alla necessità di un diritto penale minimo. Ci sarebbe bisogno di un’opera seria di depenalizzazione, invece. Di fronte a reati sicuramente efferati che colpiscono l’emotività di ognuno si risponde creando una nuova fattispecie di reato o aggravando le pene. Non serve a nulla, come dimostrano i Paesi dove viene praticata la pena di morte. Occorre attivare un’opera di prevenzione, intervenire sulla riduzione della marginalità sociale, sulla sensazione di abbandono da parte dello Stato di fette del territorio del nostro Paese dove non ci sono servizi e spazi di aggregazione. Si è toccato con mano quanto a poco serva aggravare le pene per combattere la violenza sulle donne se non si favorisce, con ogni mezzo, una vera e propria rivoluzione culturale, che educhi al rispetto dell’altrui dignità e libertà, se non si ampliano i servizi al territorio, gli spazi di ascolto, anche nelle scuole.

Il presidente di Antigone Gonnella al vostro congresso di Napoli ha detto: “Siamo arrivati a 60 mila detenuti, 12 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Ci stiamo pericolosamente avvicinando ai numeri che poi hanno portato alla nota sentenza Torreggiani”. Ritiene che da parte del legislatore ci sia una sottovalutazione della gravità del problema?

Siamo in una situazione paradossale: negli ultimi trent’anni la vecchia criminalità individuale è crollata, gli omicidi si sono ridotti a meno di un sesto. Ma la popolazione carceraria è quasi raddoppiata: i detenuti erano 31.053 nel 1991 e sono oggi oltre 60.000; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1867, due terzi dei quali aggravati come “ergastoli ostativi”.  Sembra essersi perso il senso del fine rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione. È impossibile effettuare effettivi percorsi di reinserimento sociale e lavorativo in carceri sovraffollate dove anche gli spazi di socialità spesso hanno dovuto essere eliminati. Costringere i detenuti a stare chiusi in piccole celle sovraffollate per 23 ore al giorno, come accade in certe carceri, costituisce trattamento inumano e degradante per cui rischiamo altre condanne. La vera sicurezza viene assicurata facendo in modo che chi esce dal carcere non si rimetta a delinquere ma possa reinserirsi nella società. Non si risolve il problema costruendo nuove carceri, ma valorizzando percorsi alternativi di pena che favoriscano il reinserimento sociale e lavorativo. Si ritorna ancora sulla necessità di investimenti sui servizi sociali e al territorio, nonché sul coraggio di tornare a ipotizzare il “numero chiuso” degli istituti penitenziari.


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