Intervista a Tullio Padovani

 Angela Stella  Unità 9 dicembre 2023

Questione giustizia: il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, dice la sua sulle ultime vicende.

Cosa ne pensa di questo scontro tra politica e magistratura che si esacerbato nelle ultime settimane, a partire dalle dichiarazioni di Crosetto?

È la ripetizione stanca di un canovaccio ormai diventato logoro. La crisi dei rapporti tra politica e una parte della magistratura, e cioè gli uffici di procura, risale ad alcuni decenni fa. Che si possa parlare di ‘complotti’ variamente orditi mi sembra un non-senso. Non sarebbe proprio il caso di ‘complottare’. Nel nostro Paese si è verificata una lenta ma costante traslazione di poteri che ha finito con l’attribuire agli uffici di procura un potere enorme, al punto da poterli qualificare come titolari di una sovranità. Da molti anni vedo rileggendo in modo descrittivamente provocatorio l'art. 1 della Costituzione ('L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione') secondo questa versione realistica: “L'Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull'esercizio dell'azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale”. Quindi, non confondiamo le acque: l’ordine giudiziario è una totalità all’interno della quale occorre distinguere nettamente tra pm e giudici: ai pm è riservato il potere di accusa, che - come notava il grande magistrato francese Antoine Garapon - è "anomico e terribile". Con l’aggiunta che i pm sono sostanzialmente immuni da qualsiasi responsabilità.

Tuttavia ad essere messi sotto attacco dalla politica sono i giudici in questi mesi, che hanno disapplicato provvedimenti governativi. Quindi lo scontro è su questo.

Sulla questione condivido pienamente quanto scritto da Vladimiro Zagrebelsky su “La Stampa” (Il contromaggioritario e la libertà dei giudici, ndr). I giudici sono sotto attacco perché non si vuol comprendere che essi non appartengono a nessuna maggioranza e sono necessariamente, in quanto tutori dei diritti, potenzialmente contro la maggioranza. Il giudice svolge una funzione singolarmente preziosa quando tutela i diritti individuali e le minoranze. La democrazia, intesa nella sua assolutezza, è un tragico e tirannico ordinamento, perché consegna alla maggioranza la vita e la morte dei cittadini. Per essere accettabile la democrazia deve essere liberale e presupporre quindi che esistano ai poteri della maggioranza limiti invalicabili, a tutela dell’individuo e delle minoranze, stabiliti, appunto come dice Zagrebelsky, dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali. Pertanto la polemica contro i giudici per aver reso provvedimenti sgraditi al Governo è senza senso. La pronuncia del giudice potrà essere errata, e riformata quindi in altra sede giurisdizionale, ma il magistrato non può essere aggredito per essersi ‘opposto’ alla legge della maggioranza. Ma siamo fuori di testa? È la sua funzione naturale applicarla solo se conforme alle garanzie assicurate da fonti superiori, altrimenti precipiteremmo in una tirannia della maggioranza preludio di una ‘democratura’. L’articolo di Zagrebelsky espone con semplicità e chiarezza i rudimenti basici di un sistema liberal-democratico. Al suo articolo mi permetterei solo una postilla. Lui conclude scrivendo: “i sistemi che si fondano sul principio che ‘un potere ferma l’altro’ quando siano in gioco i diritti e le libertà, sono complicati e faticosi. Ma nel corso della storia sono stati adottati per l’esperienza tragica prodotta da quelli ‘semplici’”. Soggiungo:  attualmente viviamo in un contesto in cui un potere non è fermato da nessuno, ed è precisamente quello dell’accusa, come dicevo in precedenza, che è in grado di sconvolgere la vita di chiunque, senza che nessuno risponda dei suoi esiti eventualmente (e non raramente) nefasti.

Ma adesso ci sono le nuove valutazioni di professionalità dei magistrati, molto osteggiate dalla categoria.

Non cambierà nulla. Mi pare si tratti di chiacchiere al vento, anche perché le riforme che poi passano sono filtrate dai destinatari e, spesso, anche confezionate dai destinatari. In questo Paese non vedo ombra di cambiamento in materia di giustizia, se non in peggio.

Quindi secondo lei anche il rinvio della riforma costituzionale della separazione delle carriere è dovuto a questo?

Non so da che cosa dipende. Ma siccome è assai comodo, per i pm, abbinare ad un potere sovrano un’indipendenza quale quella garantita ai giudici, non vedo l’orizzonte di questa riforma. Se fosse approvata lo considererei un miracolo.

Per quanto concerne gli ultimi provvedimenti del Governo, stiamo assistendo ad un abuso del diritto penale?

Questo Governo fa le stesse cose di tutti gli altri governi, magari con un ‘colore’ un po’ diverso dagli altri, ma non poi di molto. Siamo ben votati all’uso disinvolto dello strumentario penale: la mania di tutto governare col mezzo dei criminali giudizi, diceva Francesco Carrara centocinquant’anni fa. Si tratta di una tecnica divenuta frenetica negli ultimi 50 anni, secondo un modulo di Governo inesausto e tenace. La corsa al penale corrisponde ad un meccanismo della politica legislativa – se di politica possiamo parlare – che svolge una funzione ‘rassicurante’: suggerisce all’opinione pubblica l’idea che gli agenti del potere punitivo vengano schierati armi in pugno contro i malvagi del momento, con tutta la potenza di un monopolio pubblico inesorabile: manette, galera, sequestri, confische, interdizioni e quant’altro, per tutti e di più. E lo fa a costo ritenuto zero: le leggi penali si fanno senza difficoltà perché non sono considerate, salvo casi eccezionali, leggi di spesa. Mentre è vero esattamente il contrario: le leggi penali sono costosissime, anche se lì per lì non pare. In questo modo ci assicuriamo a buon mercato – ma non è buono se lo guardiamo attentamente – una soluzione che rappresenta solo una novella raccontata prima di andare a letto per dormire più sereni. Gli incubi si presenteranno al risveglio.

A proposito di galera: ci stiamo avvicinando ai numeri di popolazione detenuta che portarono alla sentenza Torreggiani.

Da decenni (e in realtà da secoli) parliamo di sovraffollamento con andamento ondulatorio. La popolazione carceraria cresce e cala in funzione di leggi proprie di una struttura sociale che – sia chiaro – prescinde in larga parte dalle norme penali. Il carcere si gonfia per meccanismi di reattività sociale, che determinano gli afflussi. Il fatto è che bisogna saper reagire al sovraffollamento in modo drastico e radicale. In Italia abbiamo, prima di tutto, una situazione che si caratterizza per l’obsolescenza vergognosa degli edifici penitenziari, di cui la gran parte non è assolutamente idonea ad ospitare esseri umani. E poi per la cinica noncuranza con cui si sottopongono i detenuti a trattamenti inumani e degradanti, peggiori di quelli riservati agli animali. Se noi fossimo un Paese civile dovremmo allora mettere subito in atto due misure. La prima è che il magistrato di sorveglianza sia investito del potere – dovere di chiudere le carceri che non risultano conformi alle regole minime di trattamento. Il giudice, garante dei diritti, deve far cessare la loro violazione. La seconda: nelle strutture idonee a ospitare reclusi bisogna predeterminare il numero di persone che possono essere ricevute al massimo della capienza. E se occorre farne entrare di nuove, bisogna liberare le carceri da quelle più prossime al fine pena, adottando eventualmente misure sostitutive.

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