Intervista a Francesco Petrelli

 Valentina Stella Dubbio 8 dicembre 2023

Il Governo italiano ha fornito alla Cedu le risposte sulla normativa delle misure di prevenzione, in seguito ad un ricorso proposto dalla famiglia Cavallotti (vedasi pezzo nella pagina accanto). Ne parliamo con Francesco Petrelli, Presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane.

In merito alla possibilità che la norma violi la presunzione di innocenza, lo Stato italiano sostiene che sia legittimo punire qualcuno per uno status  - e non per una responsabilità penale -  risalente ad anni prima rispetto a quando il provvedimento è stato materialmente adottato. Siamo in un diritto extra-penale in cui non esiste il concetto di prescrizione?

Il Governo italiano ha nuovamente affermato che al di là della assoluzione dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa, residuerebbe una condotta riferibile alla c.d. “appartenenza”, qualificabile in termini di pericolosità idonea a legittimare la confisca del patrimonio nel caso di beni di dubbia provenienza. Si continua, in altri termini, a percorrere un terreno manifestamente estraneo ai requisiti di tipicità e determinatezza della fattispecie, laddove la c.d. “appartenenza” si sostanzia in una sorta di “colpa d’autore” che dovrebbe essere ripudiata da un moderno ordinamento giuridico democratico. Risulta evidente che la c.d. “prevedibilità” di ciò che è capace di integrare la pericolosità sociale, incide negativamente anche sul principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, in quanto risulta amplissimo il margine di discrezionalità lasciato all’autorità di prevenzione. Con questo sistema il cittadino non può mai stare tranquillo, neanche dopo la morte: nulla a che vedere con il diritto e con lo stato di diritto.

Lo Stato non si sforza più di tanto di spiegare come sia possibile confiscare beni ad un innocente. Che ne pensa?

In verità viene semplicemente ribadito il fumoso concetto di “appartenenza” che si collocherebbe tra la colpevolezza e l’innocenza, quale presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione con confisca dell’intero patrimonio. I chiarimenti che la CEDU aveva richiesto al governo italiano sul caso “Cavallotti” sintetizzavano quella sostanziale contrarietà che, da sempre, le camere penali esprimono nei confronti del procedimento di prevenzione, che ha del tutto abbandonato la propria vocazione di contrasto delle fonti di pericolo, rappresentando ormai un sistema punitivo fondato sulla repressione di stati soggettivi di pericolosità ricostruiti su base inquisitoria e svincolato dalle garanzie. La reale natura penale della confisca, ove riconosciuta dalla CEDU, impedirebbe l’applicazione della misura della confisca in assenza dell’accertamento di un reato.  Le questioni rimaste aperte nelle risposte del Governo italiano, in linea generale, potrebbero essere superate dalla proposta di legge “Pittalis” che, in luogo della categoria degli “indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p.” prevede quella degli “indiziati del reato di cui all’art. 416 bis c.p.”, con l’ulteriore precisazione che i predetti indizi dovranno essere “gravi, precisi e concordanti”. Scomparirebbe, così, la maschera della c.d. “appartenenza”.

Rispetto alla natura delle confische lo Stato nel caso dei Cavallotti lo Stato arriva incredibilmente a sostenere che una persona può essere annientata due volte: la prima quando paga il pizzo e la seconda quando i beni gli vengono confiscati perché paga il pizzo. Non le sembra una teoria giuridica ai limiti del sadismo?

La prevenzione si è oramai trasformata in un autonomo e spietato sistema punitivo che si è andato affiancando a quello penale, divenendo uno strumento repressivo e punitivo privilegiato proprio perchè svincolato delle garanzie tipiche del sistema penale.  Il sistema di prevenzione non è infatti bilanciato da alcuna garanzia, come ad esempio un autonomo procedimento di formazione della prova, per cui il sistema è del tutto sbilanciato sugli accenti inquisitori e di polizia. Accenti che hanno travolto anche le misure patrimoniali non destinate alla confisca, con effetti altrettanto devastanti sul circuito del mercato legale; in tal modo, abbandonando la logica recuperatoria che dovrebbe ispirare tali misure, si certifica molto spesso la morte aziendale dell’imprenditoria “sana”, che si trova esposta, da un lato, alle intemperanze della criminalità e, dall’altro, alla incapacità dello Stato di offrire concrete vie di uscita e programmi di bonifica dall’inquinamento mafioso: proprio quello che è accaduto nella vicenda Cavallotti: lo Stato persevera nel voler condannare un individuo dichiarato innocente che doveva invece essere protetto dalla pervicacia della criminalità organizzata.

L’atteggiamento timoroso verso la magistratura antimafia in particolare lo abbiamo visto quando è stato approvato un decreto per ‘rimediare’ ad una sentenza della Cassazione sulle intercettazioni ma anche sull’ergastolo ostativo. Come giudica questa sudditanza?

La debolezza della politica è divenuta nel nostro Paese una caratteristica che segna l’intera storia della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni, sempre più segnata dall’egemonia delle procure, antimafia e non. Basti ricordare l’atto fondante di tale squilibrio quando nel 1994 in piena tangentopoli i pm del pool di mani pulite affondarono un decreto del governo presentandosi a favore di telecamere e minacciando di dimettersi da quel ruolo. La condizione di subalternità della politica alla magistratura è un evidente vulnus per l’intero assetto istituzionale perché nessuno ha il coraggio o si assume la responsabilità di quelle vere e radicali riforme delle quali la giustizia di questo Paese ha invece un urgente bisogno: dalla restituzione del processo al suo modello accusatorio, alla riforma dell’ordinamento giurisdizionale, che passano entrambi dalla fondamentale riforma separazione delle carriere.

La sudditanza la si rintraccia anche nella scelta di prevedere un taglio risibile dei magistrati fuori ruolo.

Qui si tocca un passaggio esemplare di questo scompenso fra i poteri. La limitazione del numero dei magistrati fuori ruolo operata dalla riforma dell’ordinamento è evidentemente risibile in quanto non incide che di 20 unità la somma delle presenze all’interno del Ministero, che sono dieci volte tanto. Non a caso si tratta di una norma scritta da una Commissione di magistrati che non avrebbe potuto seriamente incidere sulla sua stessa rilevanza politica, perché il ruolo dei magistrati all’interno dei Ministeri è inevitabilmente funzionalmente di natura politica, perché anche la tecnica in una norma che tocca il processo penale assume in ogni caso un formidabile contenuto politico.    

Rischia di compromettere anche la riforma sulla separazione delle carriere?

La vedo diversamente. Mi sembra che la presenza dei fuori ruolo nel Ministero ed il ritardo nell’attuazione della riforma costituzionale della separazione delle carriere siano entrambe conseguenza di quella stessa situazione di profonda crisi sistemica che favorisce le legislazioni compulsive, da slot machine di nuovi crimini e nuove pene, che stravolgono i principi cardine del diritto penale liberale, e stenta invece a porre in essere quelle riforme radicali di ampio respiro che sole potrebbero consentire di restituire legittimazione al giudice e credibilità alla giurisdizione.

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