Intervista a Ornella Favero

 Angela Stella Unità 7 dicembre 2023

 

Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, è tra le centinaia di firmatari dell’appello elaborato dal costituzionalista Andrea Pugiotto per il riconoscimento del diritto all’affettività in carcere, su cui la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi a breve.

Perché ha sottoscritto l’appello?

Da quando faccio volontariato in carcere e da quando è nato Ristretti Orizzonti, è uno dei primi e più importanti temi che abbiamo affrontato. Ne discutiamo da 25 anni ma tuttora il diritto all’affettività non è garantito; stiamo ancora discutendo della sua costituzionalità.

Dal suo punto di vista privilegiato, cosa può dirci rispetto a quello che le comunicano i detenuti?

Sono appena uscita dal carcere (al momento di ieri dell’intervista, ndr) e i detenuti mi hanno sommersa di domande, perché speravano che la Consulta avesse già deciso. Mi dicono che l’unico modo di umanizzare le carceri e salvare le famiglie che vivono all’esterno è quello di permettere loro un po’ di intimità in più, che non significa necessariamente compiere un atto sessuale. Vorrebbe dire vedere i propri cari senza il controllo della telecamera, senza essere circondati da altri detenuti con i propri parenti, sarebbe anche più facile scoppiare a piangere, esprimere dolore e sofferenza senza occhi indiscreti addosso.

Invece come accolgono questa possibilità gli agenti di polizia penitenziaria?

Dipende. Una parte di loro, quando si è tirato fuori questo argomento, lo ha minimizzato purtroppo parlando di ‘celle a luci rosse’, spesso provocati dalle dichiarazioni dei loro sindacati di categoria. Ma non credo che questa sia l’opinione di tutti perché c’è una fascia sempre più consistente di agenti che hanno voglia di confrontarsi, di dare al loro lavoro non solo una connotazione diretta alla sicurezza ma altresì deve puntare ai rapporti umani, a partire dalla consapevolezza che il tema dell’affettività non può restare un tabù.

È ottimista rispetto alla decisione della Consulta?

Spero, anche in base agli ultimi pronunciamenti di questi anni, che la Corte Costituzionale accolga la questione sollevata da un magistrato così preparato e profondo come Fabio Gianfilippi. Il giudice di sorveglianza, a differenza dei suoi colleghi, si occupa della persona e non del fatto e lui è riuscito a mettere in evidenza tutti gli aspetti importanti di questa questione. Auspico che arrivi una decisione positiva, anche perché è un periodo difficilissimo per le carceri.

Infatti il sovraffollamento è in aumento e stiamo tornando ai tempi che portarono alla famosa sentenza Torreggiani. Come invertire la rotta?

Siamo ad oltre 60 mila detenuti. Occorre smetterla di vedere come unica soluzione alle insicurezze e ai problemi della società l’aumento delle pene e il carcere. Questo abuso del diritto penale, per cui sembra che ad ogni evento di cronaca si inserisca nel codice un nuovo reato, non è accettabile. Nel nostro ordinamento ci sono già le pene e non sono affatto leggere. Bisogna invece prendere consapevolezza che se un detenuto accede alle misure o alle pene alternative al carcere ci rende tutti più sicuri. E poi occorrerebbe svuotare le carceri, attraverso percorsi guidati, dai reclusi che hanno pene o residui di pena bassi.

In generale qual è il clima all’interno delle carceri? I detenuti sono delusi o arrabbiati?

Io percepisco un clima di grande delusione, paura, frustrazione perché sono anni che si parla di riformare il carcere ma nulla viene fatto, anzi si proclamano sempre di più slogan, sia da parte della politica che della società, come ‘buttare via la chiave’ e ‘galera per tutti’. E poi vedo tanto disagio mentale, tanta sofferenza psichiatrica, soprattutto da parte di giovani, che manifestano spesso sentimenti di rabbia. Conosco detenuti appunto giovani che immagazzinando rabbia in carcere hanno accumulato nuove pene, rovinandosi ancora di più la vita. 


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