Comuni sciolti su libero arbitrio

 Valentina Stella dubbio 5 agosto 2023

La lettera dell’ex vicesindaca di Rende (provincia di Cosenza),  pubblicata ieri sul nostro giornale, dove si stigmatizzava il fatto che «In Italia c’è un potere assoluto dei prefetti che possono sciogliere Comuni senza alcuna possibilità di confronto», ci offre la possibilità di interrogarci sul sistema di scioglimento di un ente per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi da quando, nel 1991, questo strumento eccezionale di contrasto alla criminalità organizzata è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Lo faremo a puntate perché il tema è vasto e merita approfondimenti da diversi punti di vista. Chi si è occupato - diciamo scientificamente - di questo fenomeno è l’avvocato calabrese Pasquale Simari, che ha anche scritto un saggio all’interno del volume, curato da Nessuno Tocchi Caino, dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell'inquisizione antimafia”. Secondo l’esperto la questione si caratterizza per due aspetti: «da un lato, l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli organi governativi nel valutare la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento; dall’altro, la forte limitazione del diritto di difesa che subiscono le Amministrazioni “sciolte”, stante la sostanziale impossibilità di effettuare accertamenti circa la fondatezza, nel merito, degli elementi indiziari che sorreggono il decreto dissolutorio». Per Simari «la vicenda di Rende non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia: la giurisprudenza amministrativa ha talmente dilatato il potere discrezionale degli organi deputati a decretare lo scioglimento da averlo trasformato quasi in arbitrio». Ma da cosa è normato lo scioglimento di un Comune? Dall’articolo 143 Testo unico degli enti locali (TUEL), per cui il prefetto nomina una commissione d’indagine, questa ha massimo sei mesi per scrivere le conclusioni, dopo di che il prefetto sente il Procuratore della Repubblica e il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, invia tutto al Viminale che fa richiesta alla Presidenza della Repubblica che con decreto scioglie poi il Comune. Il problema, sottolinea Simari, è che questa operazione invece di conferire allo scioglimento una natura tipicamente sanzionatoria si è trasformata negli anni in misura di natura preventiva. Lo scioglimento prescinde dalla eventuale responsabilità penale degli amministratori. La prassi, ormai, è quella di fare un pot-pourri di circostanze e condire la relazione anche di elementi sconnessi tra loro per giustificare la richiesta di scioglimento. Basta, ad esempio, che nel contesto territoriale siano presenti organizzazioni criminali, che qualche amministratore abbia un cugino indagato per mafia o che una gara sia stata gestita male per richiedere la misura. «A questo punto – sostiene Simari -  è fin troppo chiaro che le caratteristiche dell’istituto, per come venuto modellandosi nel “diritto vivente”, non sembrano più coerenti con le coordinate ermeneutiche dettate dalla Consulta con la sentenza n. 103/1993». Secondo il giudice delle Leggi, infatti, «la corretta interpretazione della norma non consentiva che lo scioglimento potesse essere disposto sulla base di elementi “che presentano un grado di significatività inferiore a quello degli indizi e che, pertanto, mal si prestano ad un procedimento logico di tipo induttivo e ad un successivo controllo in sede giurisdizionale”, né poteva legittimare provvedimenti fondati su “convincimenti che, prescindendo dall’osservanza del canone di congruità argomentativa e conclusiva, potessero basarsi su considerazioni aprioristiche”». A supporto di tale interpretazione c’era anche una circolare del Ministero dell’Interno del 1991 in cui si affermava che dagli elementi oggetto di valutazione avrebbe dovuto emergere «chiaramente il determinarsi di uno stato di fatto nel quale il procedimento di formazione della volontà degli amministratori subiva alterazioni per effetto dell’interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata». Invece negli anni ci si è completamente distaccati da queste letture, aggiungendo al quadro l’impossibilità di un effettivo contraddittorio nella fase istruttoria e i limiti propri del sindacato dei giudici amministrativi quanto alla ricostruzione dei fatti e alle implicazioni desunte dagli stessi, che non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento. Simari nel suo saggio ricorda un principio enucleato da una sentenza del Consiglio di Stato secondo cui, trattandosi di provvedimento disposto con «decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’interno, formulata con apposita relazione di cui forma parte integrante quella inizialmente elaborata dal prefetto, è lo stesso livello istituzionale degli organi competenti ad adottare il decreto di scioglimento a garantire l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti». Per l’avvocato si tratta «di una affermazione che non pare eccessivo definire di “matrice autoritaria” non potendosi certamente considerare in linea con i dettami della nostra Costituzione la pretesa (si badi, enunciata in sede autorevolissima) di riservare all’Esecutivo il compito di stabilire in maniera insindacabile se, nel caso concreto, le esigenze di tutela dell’ordine pubblico debbano prevalere sia sull’interesse del Sindaco e dei Consiglieri Comunali ad esercitare il mandato che è stato loro democraticamente conferito, sia su quello degli elettori a vedere rispettato l’esito del voto».  Verrebbe da chiedersi allora a cosa serve fare ricorso agli organi di giustizia amministrativa se si parte dal presupposto che il decreto è giusto data l’autorevolezza di coloro che lo hanno richiesto e firmato.


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