Il caso Carol Maltesi

 Valentina Stella Dubbio 26 settembre 2023

Non si placano le polemiche dopo che a Davide Fontana, il bancario di 44 anni condannato in primo grado a trent’anni per l’omicidio, lo smembramento e l’occultamento del corpo di Carol Maltesi, è stata concessa, con la contrarietà del pm e delle parti civili, dalla Corte di Assise di Busto Arsizio l'ammissione all'istituto della giustizia riparativa, primo caso in Italia, almeno per il reato di omicidio, dell'istituto entrato in vigore il 30 giugno scorso, a seguito della riforma Cartabia. Dopo che la madre della vittima ha dichiarato «Il sì dei giudici al reinserimento dell’assassino di mia figlia? Non è possibile, questa è un’ingiustizia...Adesso temo davvero che un giorno il mostro che ha massacrato e fatto a pezzi Carol possa tornare libero» si è aggiunto un comunicato della Rete Dafne, Rete Nazionale dei servizi per l’Assistenza alle Vittime di reato, presieduta dall’ex magistrato Marco Bouchard: «La decisione della Corte d’Assise di Busto Arsizio favorevole alla richiesta di programma riparativo per Davide Fontana ci ha profondamente turbato. La Corte d’Assise viola il sentimento d’ingiustizia che a distanza di un anno e mezzo dai terribili fatti provano ancora le vittime alla sola idea di incontrare l’imputato e non riesce a cogliere nella loro indisponibilità il rischio di una clamorosa vittimizzazione secondaria che in questo caso – lo dice la Direttiva europea 2012 che sul punto ha effetto diretto – dovrebbe essere addirittura presunta poiché una di esse ha appena compiuto sette anni ed è figlio dell’uccisa. La Corte d’Assise lede lo stesso ruolo di mediatori perché li scavalca stabilendo in loro vece la fattibilità del programma riparativo mediante ricorso a vittime sostitutive (quante? di quale età?): e che fardello dovrà portare la vittima sostituiva nel mettersi nei panni di chi si è rifiutato di entrare nella stanza del mediatore?». A distanza replica l’avvocato di Fontana, Stefano Paloschi, che lo difende insieme a Giulia Ruggeri: «comprendo i sentimenti dei familiari di Carol Maltesi, ma al contempo ritengo che chi lotta contro la violenza di genere dovrebbe guardare con interesse a questo istituto che in altre circostanze ha dato ottimi risultati, e magari fare richiesta di partecipare al programma». Leggiamo ora le carte. Nell’istanza presentata alla Corte Fontana scrive: « è interesse primario del sottoscritto poter partecipare a tale tipo di programma al fine di riparare, per quanto possibile, ai danni e al dolore provocati ai genitori di Carol Maltesi e soprattutto al figlio Carlos, impiegando fruttuosamente il tempo della reclusione per intraprendere fin da subito un percorso carcerario riabilitativo e rieducativo». I giudici hanno accolto la richiesta adducendo i seguenti motivi: «considerato che l’imputato ha manifestato, sin dalla fase delle indagini preliminari, la seria, spontanea ed effettiva volontà di riparare alle conseguenze del reato, ribadita anche all’odierna udienza (19 settembre, ndr), tanto da aver chiesto scusa ai familiari della vittima sin dalla prima udienza dibattimentale, utilizzando quindi uno degli strumenti di giustizia riparativa; ricordato che l’avvio di un percorso di giustizia riparativa prescinde dal consenso di tutte le parti interessate», «ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa – laddove ritenuto esperibile dai mediatori anche con ‘vittima aspecifica- possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr. Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento», «rilevato che lo svolgimento di giustizia riparativa da parte del Fontana non comporta alcun pericolo concreto per l’accertamento dei fatti, già giudicati in primo grado, come del resto riconosciuto da tutte le parti», «considerato che non sussista neppure un pericolo concreto per gli interessati, pur tenuto conto della presenza di un minore di circa sette anni», «dispone l’invio del caso al Centro per la Giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano perché verifichi la fattibilità di un programma di giustizia riparativa». Spieghiamo bene la questione della vittima aspecifica perché qualcuno potrebbe chiedersi che senso abbia avviare il percorso se davanti a sé non c’è la vittima del proprio reato. Come ha spiegato l’Ufficio del Massimario della Cassazione, riportato nella memoria dei legali di Fontana, «la norma, per un verso, chiarisce la natura pubblica della giustizia riparativa, che mai si risolve in una ‘questione privata fra vittima e autore del reato’ e, per altro verso, dà concretezza a modi e interventi atti ‘a far maturare un clima di sicurezza sociale al fine di costruire una società del rispetto, capace di contemplare e accogliere le vulnerabilità individuali e collettive». Dunque, «in assenza del consenso della vittima “specifica”, saranno i Centri di Giustizia Riparativa ed i mediatori incaricati ad essere tenuti ad individuare il programma che ritengono più adeguato alle circostanze del caso concreto, tenendo in considerazione questo aspetto».


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