Come salvare il processo Regeni non abbassando le garanzie

 Valentina Stella Dubbio 22 settembre 2023

Mercoledì scorso i giudici della Corte Costituzionale, riuniti in Camera di Consiglio, avrebbero dovuto decidere se il processo per la morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016, si sarebbe potuto celebrare pur in assenza degli imputati. Ma la questione è talmente delicata che non sono riusciti ancora a formulare una sentenza e dovranno riunirsi nuovamente nei prossimi giorni. La difficoltà è quella di bilanciare il diritto della famiglia Regeni ad un giusto processo, l’obbligatorietà dell’azione penale del pubblico ministero italiano, e la tutela degli imputati. Essi sono quattro 007 egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. I militari non hanno mai comunicato i loro indirizzi, necessari a inviare la notifica del procedimento in corso. Dunque sul tavolo dei giudici c’è l’art. «420 bis, commi 2 e 3, cpp nella parte in cui non prevedono, rispettivamente,  che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dell’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato e che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza  o dal rifiuto di cooperazione  da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato». La questione è stata sollevata qualche mese dal gip di Roma Ranazzi e «riguarda la volontà dello Stato egiziano di sottrarre i quattro imputati al nostro processo, ma non è tale da far ritenere provata la volontà dei quattro imputati di sottrarsi al processo». Secondo il tribunale di Roma la norma attuale che di fatto impone uno stallo al processo potrebbe non essere in linea con gli articoli 2, 3, 24, 111, 112, 117 della Costituzione, con la Convenzione Onu contro la tortura (ratificata dall’Egitto nell’86) e con la direttiva Ue in materia di tutela delle vittime di reato. Non possiamo essere nella testa dei giudici della Consulta, possiamo solo immaginare che anche loro vogliano che il processo per la morte di Giulio Regeni si faccia. Il problema è trovare una strada, senza squilibrare il sistema italiano vigente e senza porsi in contrasto con la giurisprudenza sovranazionale. Vediamo perché. L’accertamento prima e il superamento poi della lacuna nel nostro codice di rito potrebbe passare attraverso una sentenza additiva che inserisca nell’art. 420-bis comma 3 una nuova eccezione, quale quella della mancata collaborazione dello Stato  estero. Tuttavia, come ricorda sulla rivista Sistema Penale la professoressa Serena Quattrocolo, ordinario di diritto processuale penale nell’Università del Piemonte Orientale, in Italia « il processo si instaura e celebra solo nei confronti di: a) coloro che ne abbiano avuto effettiva conoscenza, b) del latitante, o  c) di chi si sia volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti dello stesso. Una impostazione, questa, che risponde ai parametri del ‘convenzionalmente necessario’, in cui si realizzano i canoni della conoscenza effettiva e della volontarietà dell’eventuale scelta astensionistica dell’imputato, da decenni considerati lo ‘standard minimo’ per la compatibilità convenzionale del processo in absentia. Non si vede, invece, come sulla base dei principi costituzionali richiamati, si possa ritenere necessaria la previsione di legittima declaratoria di assenza e, dunque, la celebrazione del processo, quando l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza della vocatio in ius (luogo, giorno, ora nonché imputazione, ndr), a causa di un comportamento negligente dello Stato di cittadinanza o residenza rispetto ad un obbligo di cooperazione giudiziaria». Come spiega anche il professor Giorgio Spangher, emerito di procedura penale, « mentre le due situazioni delineate dalla norma fanno riferimento a precisi comportamenti volontari dell’imputato (latitanza e volontaria sottrazione al processo) la decisione additiva si riferisce ad attività di terzi alle quali i soggetti, mancando elementi in senso contrario, sono estranei». Inoltre «la questione di legittimità costituzionale rischia di abbassare le garanzie e consentirebbe letture al ribasso di “ogni altra circostanza rilevante” essendo piuttosto larga la lettura che sarebbe possibile applicare al soggetto assente per giustificarne la mancata partecipazione al processo». In pratica creata una eccezione per questo caso, se ne potrebbero creare altre in futuro per circostanze diverse.  A ciò si aggiunge che se la Corte Costituzionale formulasse la soluzione manipolativa additiva significherebbe aprire una breccia nel contrafforte garantistico del principio della effettiva conoscenza della pendenza del processo, scegliendo così di procedere sempre nei confronti di imputati stranieri ignari delle accuse e del processo a proprio carico, solo perché lo Stato di residenza non ha voluto o (forse, peggio ancora), non ha saputo cercarli e trovarli.

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue