Il codice Rocco finisca dinanzi la Consulta

 Valentina Stella Il Dubbio 28 novembre 2022


La vicenda di Benno Neumair ha riportato alla nostra attenzione il tema delle pene accessorie. Il ragazzo, reo confesso dell’omicidio dei genitori, è stato infatti condannato all’ergastolo con un anno di isolamento diurno e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Inoltre la Corte d’assise di Bolzano ha anche «ordinato la pubblicazione della sentenza mediante affissione nel comune di Bolzano e la pubblicazione sul sito del ministero della Giustizia per 15 giorni». Possibile che ancora oggi i giudici pronuncino sentenze sulla base di norme che risalgono all'epoca fascista?  Secondo l’avvocato Felice Belluomo, Presidente della Camera Penale di Napoli Nord, «il Giudice è soggetto soltanto (ed obbligatoriamente) alla Legge per cui fin quando non verrà modificata la norma, qualunque sia il Legislatore che l’abbia emanata, qualunque sia il contesto socio-culturale o il modello culturale di cui quella norma sia espressione, il Giudice ha un margine di operatività molto ristretto». Detto questo, per il penalista, «andrebbe riscritto completamente il tema delle sanzioni accessorie secondo un modello culturale di maggiore tipicità e proporzionalità al fatto reato contestato e per cui vi sia stata una sanzione principale. Dando cioè alle parti anche la possibilità di richiedere una varietà di sanzioni accessorie proporzionata ed adeguata alla fattispecie concreta e per essa una maggiore operatività al Giudicante».  Per Belluomo « diversi sono gli istituti, sia in diritto sostanziale che procedurale, di epoca fascista che andrebbero forse modificati ma il focus sulle sole pene accessorie mi porta a dire è che quello che balza ictu oculi all’operatore è la circostanza che le pene accessorie nonostante  abbiano una natura giuridica di sanzione penale e perseguano (rectius dovrebbero perseguire) precipui obiettivi di rieducazione, prevenzione e retribuzione, al pari delle pene principali, hanno una  disciplina codicistica  che tratteggia un ruolo particolarmente limitato in capo al giudice». L’aspetto che più colpisce forse è l'affissione della sentenza: «se mi si chiede il mio personale pensiero, ritengo che sia oltremodo una norma obsoleta sotto plurimi aspetti da quello della conoscenza a quello della deterrenza. Nell’epoca di una comunicazione così smart e veloce, in cui la notizia è on line in un nanosecondo ritenere che la pubblicazione all’albo comunale possa servire ad una funzione di conoscenza o di prevenzione è utopia e di fatto si prefigura solo come una ulteriore gogna nei confronti del reo e sicuramente poco rispondente a criteri non solo nazionali ma anche sovranazionali di tutela anche dei diritti del condannato e della inviolabilità personale di quest’ultimo».  Critico sul sistema anche l'avvocato Michele Passione, che ha fatto parte nel 2017 della Commissione ministeriale, presieduta dal professor Pellissero, incaricata, tra l'altro, della revisione delle pene accessorie.  La vicenda di Benno per il legale «offre la possibilità di riflettere sulla possibilità o meno che la legge che obbliga il giudice a comminare le pene accessorie sia insindacabile alla luce dei parametri che le giustificano, ossia aggravare l’afflittività della pena ed evitare la reiterazione del reato. Mi chiedo: la pubblicazione della sentenza sul sito del Ministero della Giustizia svolge una qualche funzione di riduzione del pericolo di recidiva? Io credo di no. Penso che sia espressione di un giudizio morale». Alla luce di ciò Passione ritiene che «si dovrebbe assegnare a tutte le pene accessorie una funzione costituzionalmente orientata. Esse sono state pensate, infatti, quando ancora non c’era la Costituzione». La Gran Bretagna, ci spiega Passione, «è stata più volte condannata con sentenza della Cedu per aver negato il diritto di voto ai condannati». Diverso quanto è accaduto nel caso Scoppola vs Italia. «Il ricorrente lamentava che l'interdizione dai pubblici uffici inflittagli a seguito della condanna all'ergastolo per omicidio aveva comportato la decadenza permanente del suo diritto di voto. La Corte ritenne che non vi era alcuna violazione perché, secondo la legge italiana, solo i detenuti condannati per determinati reati contro lo Stato o il sistema giudiziario perdono il diritto di voto. Non esisteva quindi una misura generale, automatica e indiscriminata come nel Regno Unito». Il penalista ritiene che la questione debba essere portata all’attenzione della Corte costituzionale «che ha già mostrato particolare sensibilità verso le pene accessorie, anche se solo su quelle temporanee, oppure si debba procedere per via legislativa». E poi per Passione c’è un altro elemento da non sottovalutare: «oggi la legge Cartabia pone il tema del diritto all’oblio che mal si concilia con la gogna mediatica fatta dallo Stato nel momento in cui pubblica la sentenza sul sito del Ministero e la affigge al Comune». Una pena accessoria incomprensibile è privare un condannato per sempre del diritto di voto. C’è molta retorica nel dire che egli non è più il reato che ha commesso nel momento in cui entra in carcere e che verrà rieducato, però poi lo si tratta sempre da colpevole: «non vedo alcuna relazione tra il divieto del voto e il delitto commesso, in questo caso l'omicidio, così come non lo vedo anche se il reato è quello di inquinamento elettorale mediante il metodo mafioso». Inoltre «il sistema della proporzione tra la pena accessoria e l’ergastolo salta per l’aria quando l’interdizione perpetua viene comminata per qualsiasi condanna ad una reclusione non inferiore a 5 anni». Quanto all’isolamento diurno, conclude Passione, «esso si giustifica per qualche sanzione che interviene su un reato satellite. Comunque resta di una bruttura tale che dovremmo anche in questo caso immaginare un sistema che consenta l’assorbimento di tutto sotto l’ergastolo».

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