La dignità della madre di Willy contro l'odio social

 Valentina Stella Dubbio 14 luglio 2023

La sentenza con cui due giorni la prima Corte di Assise di Appello di Roma ha tolto l’ergastolo ai fratelli Bianchi e li ha condannati a 24 anni per la morte di Willy Montero Duarte ha suscitato lo sdegno dei social e anche di qualche giornale che ha parlato di «sentenza choc contro le belve di Artena». Nel frattempo su Facebook e Twitter sono partiti i soliti insulti agli avvocati difensori e ai giudici per una sentenza definita «vergognosa, schifosa, in un Paese ignobile» mentre ci si chiedeva «ma dare l’ergastolo pure all’avvocato?» e a cui si aggiungeva: «una vergogna quasi maggiore delle famiglie degli imputati è costituita dai loro legali», «dai giudici che hanno sbagliato sentenza. Voglio vedere se al posto di Willy c’era il figlio di un alto funzionario», «giudici veramente imputabili di violazione di diritto alla vita. Ora spero che capiti anche ai giudici la stessa cosa». Insomma è andato in scena il solito istinto populista a fronte però di un atteggiamento pacato e dignitoso da parte della famiglia di Willy che non ha né ispirato né cavalcato quest'onda violenta. Proprio ieri, a margine della sentenza, sua madre uscendo dall’aula ha detto: «non cerchiamo vendetta. Abbiamo avuto giustizia anche così». Parole composte che ultimamente non siamo abituati a sentire quando ci sono decisioni simili. Negli altri casi assistiamo da parte dei familiari e delle persone a loro vicine aggressioni verbali ma anche fisiche nei confronti degli avvocati e dei giudici. Come ci spiega l’avvocato della famiglia Duarte, Domenico Marzi, «non ho mai preso in considerazione e mai lo farò quello che viene scritto sui social. Sono abituato a parlare di carte e non di emozioni. Queste ultime le posso comprendere così come posso cogliere in questo caso delle ragioni emotive che possono spingere a dire determinate cose. Tuttavia non hanno alcun valore. La Corte di Assise di appello ha evidentemente ritenuto che potevano essere concesse le attenuanti generiche anche ai Bianchi. Se non fossero state concesse obiettivamente ci sarebbe stato un distinguo significativo con gli altri due imputati che hanno concorso all’omicidio volontario, come confermato dalla Corte». «Il problema della pena – aggiunge il legale -  attiene ad una decisione del giudice, mentre la parte civile non può chiedere nulla. Quindi è evidente che non si può non avere un atteggiamento di questo genere. Io avevo rappresentato ai miei clienti questa ipotesi di sentenza» e alla lettura non hanno battuto ciglio. «Quelli che urlano  - conclude l’avvocato Marzi – non mi sono mai piaciuti. A me è piaciuta molto la compostezza che ho colto fin dal primo momento nella famiglia di Willy. La sentenza a 24 anni è il massimo della pena escludendo l’ergastolo». Anche per il difensore di Gabriele Bianchi, Valerio Spigarelli, «colpisce l’atteggiamento dignitosissimo della famiglia di Willy, vorrei però ricordare che Gabriele ha chiesto scusa sia in primo che in secondo grado.  Ciò, ovviamente, senza pretendere nulla dalla famiglia che ha perso un figlio così giovane e ha sempre avuto un atteggiamento civile». Ma «attorno a questa vicenda si è innescato il consueto meccanismo mediatico-giudiziario, avvezzo a selezionare casi di cronaca che hanno quei particolari che possono ‘eccitare’ le pulsioni populiste. Per quanto concerne i fratelli Bianchi: gli imputati sono tatuati, praticano l’MMA, hanno la faccia da killer ed ecco che il mostro è servito. Infatti, quella fotografia dei due è diventata l’icona del processo prima del processo. Su questo non dimentichiamo cosa scrisse Michele Serra su Repubblica tempo fa: “Urge una moratoria delle foto dei fratelli Bianchi, quotidianamente e ovunque seminudi, con il muscolo turgido e l'occhio torvo a bordo di oneste piscine di provincia vissute come il set di American Crime…”». «Sullo sfondo di questo processo seguito parossisticamente dai media - prosegue Spigarelli – e visto quel che è accaduto dopo l’esclusione dell’ergastolo, immagino cosa sarebbe successo se fosse stato configurato l’omicidio preterintenzionale o addirittura se si fosse riaperta l’istruttoria come chiedevamo. Con questo non voglio dire che i giudici possano essere stati intimiditi dal contesto, mi limito a registrare che sui social sono stati messi alla gogna oltre che gli avvocati difensori anche i giudici perché invece dell’ergastolo hanno irrogato ‘solo’ 24 anni di reclusione. Il che la dice lunga sul clima che si è creato intorno a questa vicenda. Io partecipo spesso a processi che finiscono sulle pagine della cronaca giudiziaria ma l’attenzione e la pressione che si è manifestata in questo caso sembrano abbastanza straordinarie». Sul ruolo dei media, il legale sottolinea: «Tutte le testimonianze sono state ampiamente condizionate dalle informazioni che, al di fuori del processo, sui media e sui social, circolavano nei mesi successivi al tragico evento. Dopo le prime dichiarazioni dei testimoni sentiti nell’immediatezza del fatto - che restituivano una dinamica diversa e ben altro ruolo di Gabriele rispetto a quello riconosciuto nelle sentenze - venne infatti pubblicata una sequela di atti e di notizie riguardanti il supposto svolgimento dei fatti. Questo ha portato ad una alterazione del dato cognitivo dei potenziali testimoni; tanto è vero che successivamente quelle stesse persone dissero cose diverse». Spigarelli torna anche nel merito del procedimento: «è stato un processo con profili giuridici complessi tanto sull’inquadramento dei fatti quanto sul riconoscimento dell’aggravante dei futili motivi. Il risultato finale certamente ripara alla sproporzione della pena dell’ergastolo, ma attendo di leggere la motivazione per comprendere come mai la Corte di Assise d’Appello ha riconosciuto l’aggravante dei motivi abietti e futili che, in altri casi giudicati recentemente, del tutto sovrapponibili come dinamica, non aveva applicato».

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