Assoluzione Kevin Spacey: una crepa per il Me too

 Valentina Stella Dubbio 28 luglio 2023

«Il mio mondo è esploso», ha testimoniato Kevin Spacey in tribunale a Londra. «C'è stata una corsa al giudizio e prima che la prima domanda venisse posta o si rispondesse, ho perso il mio lavoro, ho perso la mia reputazione, ho perso tutto nel giro di pochi giorni». Adesso chi ripagherà il due volte premio Oscar, uno dei più grandi attori della sua generazione, visto che è stato assolto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna? Quando all’inizio di gennaio di quest’anno ha ricevuto, tra mille polemiche, un premio alla carriera dal Museo Nazionale del Cinema in una cerimonia a Torino, consegnatogli da Vittorio Sgarbi, sottosegretario al ministero della cultura, l’attore ringraziò il museo per aver avuto «il coraggio, le palle, di invitarmi». Adesso che non serve più il coraggio qualcuno tornerà a farlo recitare sui grandi schermi? Da quando era stato accusato di molestie e abusi sessuali, Spacey aveva smesso di lavorare come attore: nel 2017 era stato addirittura sostituito nel film di Ridley Scott Tutti i soldi del mondo, le cui riprese erano già state completate. Era stato poi escluso anche dal cast di House of Cards, la serie di Netflix di cui era stato protagonista per cinque stagioni. Intanto da allora la vera giustizia, quella delle Corti e non della piazza, ha fatto il suo corso: nel 2019, quando la presunta vittima si è improvvisamente rifiutata di testimoniare, i pubblici ministeri del Massachusetts hanno ritirato le accuse contro di lui in un procedimento penale in cui era accusato di aver aggredito sessualmente un uomo di 18 anni a Nantucket nel 2016. Un altro caso in California, intentato da un massaggiatore, è stato archiviato dopo la morte della presunta vittima. L’anno scorso una giuria di New York lo ha assolto nella causa civile da 40 milioni di dollari che gli aveva intentato Anthony Rapp, l'attore di Star Trek: Discovery che l'aveva accusato di averlo molestato quando era ancora adolescente. Due giorni fa un tribunale londinese lo ha assolto nel processo in cui era accusato di aver aggredito sessualmente nel Regno Unito quattro uomini tra il 2001 e il 2013. Il processo, iniziato un mese fa, riguardava inizialmente dodici accuse, tre delle quali erano state cancellate nel corso delle udienze. Delle nove rimaste, sette erano per aggressione sessuale, una per aver indotto una persona a compiere attività sessuali senza il suo consenso e una per aver indotto una persona a compiere attività sessuali che prevedevano una penetrazione. Spacey è stato giudicato non colpevole per tutti i nove capi di imputazione. Le lacrime sono scese sul suo volto durante la lettura del verdetto finale di non colpevolezza. Il premio Oscar ha guardato la giuria, ha messo la mano sul petto e ha detto «grazie» ai nove uomini e tre donne che gli hanno restituito l’onore nel giorno del suo 64° compleanno. Quello concluso due giorni fa era l’ultimo processo pendente nei suoi confronti. Questi sono i fatti: cosa possiamo trarne? Senza dubbio questa sequela di assoluzioni è la prima vera crepa nel movimento del #metoo di cui Kevin Spacey era stato uno dei maggiori simboli. Il reietto è stato messo al bando dall’industria cinematografica, contro di lui si sono alzati i pugni delle femministe, è stato processato e giudicato colpevole dalle tricoteuse del nuovo millennio. Nessuno ha avuto la pazienza di attendere i verdetti del tribunale. L’epurazione doveva essere repentina, senza lasciare minimamente spazio alla presunzione di innocenza, inghiottita dal populismo giudiziario internazionale. Eppure Philip Roth, anch’egli travolto post mortem da questa ondata con accuse generiche e poco sostanziate, in poche parole è riuscito a dare senso a tutto questo: «Io presto ascolto al grido delle donne offese e ferite (nel caso di Spacey, uomini, ma non fa differenza, ndr). Non provo altro che solidarietà per il dolore e la loro richiesta di giustizia. Ma mi rende ansioso la natura del tribunale che si sta pronunciando su quelle loro accuse. Mi rende ansioso, in quanto libertario e sostenitore dei diritti civili, perché non mi sembra un vero tribunale. Quello che invece vedo sono accuse rese istantaneamente pubbliche e subito seguite da un castigo perentorio. Vedo che all’accusato viene negato il diritto all’habeas corpus, il diritto ad un confronto con chi lo accusa, e il diritto a difendersi in qualcosa che somigli a una vera corte di giustizia, dove possono essere fatte distinzioni rigorose riguardo alla gravità del crimine riportato» (Blake Bailey, Philip Roth – La biografia, Einaudi, pagine 1030, euro 26). Ecco, il grande scrittore americano con un perfetto equilibrismo tra le giuste pretese delle presunte vittime a farsi ascoltare e il diritto degli imputati ad essere giudicati nelle sedi opportune è riuscito a rappresentare tutti gli elementi in gioco del #metoo. Quest’ultimo ha avuto sicuramente un impatto significativo sulla nostra cultura. Ha portato alla luce la prevalenza di aggressioni, molestie sessuali, diseguaglianze sul posto di lavoro e ha ispirato più vittime a condividere le loro storie. Anche la questione del consenso è cambiata grazie ad esso, con più persone che ora capiscono che «no» significa «no». Tuttavia c’è il risvolto della medaglia. Nel 2018, Amber Heard si era dichiarata un «personaggio pubblico che rappresenta gli abusi domestici», e ha portato a un processo di alto profilo contro il suo ex marito, Johnny Depp. L’assoluzione di quest’ultimo ha rivelato che l'opinione pubblica è diventata meno amichevole nei confronti degli accusatori. Addirittura la violenza domestica continua a essere sottostimata, con solo il 41% dei casi denunciati alla polizia nel 2020, in calo rispetto al 47% del 2017, secondo il Dipartimento di giustizia americano. Adesso l’assoluzione di Kevin Spacey. Dato questo scenario sarebbe forse il momento di analizzare con più freddezza e razionalità tutte le sfaccettature del movimento #metoo, nei suoi pregi ma anche nei suoi difetti. 

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