Attacco al giudice

 Valentina Stella dubbio 27 luglio 2023

È partito il linciaggio mediatico contro la quinta sezione collegiale del Tribunale di Roma e sui giornali sono già apparsi i nomi e cognomi delle magistrate che la compongono. I motivi? Il primo: aver assolto un bidello, accusato di aver palpeggiato una studentessa, in quanto «non sono emersi elementi probatori sufficienti a formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell'imputato» con riferimento alla presenza dell’elemento soggettivo della condotta. Il secondo: aver assolto un dirigente di un museo capitolino, accusato di molestie sessuali da una dipendente, perché, tra l’altro, i testimoni non hanno pienamente confermato il racconto della presunta vittima. Ieri dalle pagine di Repubblica Bo Guerreschi, presidente della onlus “bon’t worry” che si occupa di violenze di genere e che assiste la presunta vittima dello stupro di capodanno, sul quale si dovrà pronunciare presto lo stesso collegio del Tribunale capitolino, ha detto: «chiedo l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Spero che a breve invii gli ispettori, questi verdetti lasciano senza parole e mi fanno pensare che lottiamo per qualcosa che la giustizia ci nega». Intanto la presidente del Collegio, la dottoressa Maria Bonaventura, dal Corsera si difende: «Il mio ruolo mi conferisce autonomia e indipendenza ed è in ragione di questi principi che ho scritto la mia sentenza. A mio avviso i giudici devono esprimersi attraverso le proprie sentenze. Ho comunque in serbo una denuncia al Csm al quale inoltrerò una mia relazione dettagliata». Su questa vicenda abbiamo raccolto il parere del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: «premetto che sono convinto della necessità di una particolare attenzione e specializzazione professionale nell’accertamento dei reati di violenza di genere. Detto questo in linea generale e senza saper nulla delle vicende che ora suscitano più di una polemica, ricordo che tutte le sentenze sono criticabili. Tuttavia il luogo di elezione delle critiche è il processo stesso. Invocare gli ispettori del Ministero per reagire ad una sentenza che non piace, credo che sia un modo per fare confusione, per creare caos intorno a quelli che sono i principi che devono governare la materia. Questo non per un formale e acritico ossequio all’autonomia e indipendenza della magistratura ma per il riconoscimento del processo come sede migliore per accertare i fatti, per superare, eventualmente ci siano, difficoltà anche d’ordine culturale, nell’apprezzamento di fenomeni di complessa lettura». Per Aurora Matteucci, Presidente della Camera Penale di Livorno, «è deprecabile la richiesta di chiamare in causa gli ispettori ministeriali. Si tratta di uno sconfinamento tra i poteri dello Stato. Qualsiasi contenuto possa esprimere una sentenza, esistono le impugnazioni. Non possiamo chiedere l’intervento dell’Esecutivo sul potere giudiziario ogni volta che non ci piace una decisione». Inoltre tutta questa attenzione mediatica sulle vicende che trattano la violenza sessuale mette in evidenza «una stortura, ossia guardare al genere del collegio giudicante, come se dalle donne ci si aspettasse sempre e per forza un comportamento di esemplarità della pena». Per Matteucci «la lettura dei fenomeni criminali, in generale, ma soprattutto dei reati a sfondo sessuale o di violenza maschile contro le donne soffre gli effetti negativi di un eccesso di radicalizzazione e quindi di semplificazione: come al solito scaricare sul solo diritto e sul processo penale questioni che prima di tutto dovrebbero trovare composizione sul piano culturale produce storture pericolose». In definitiva «a contendersi il campo sono due stereotipi opposti: se da un lato ancora resistono narrazioni che tradiscono l’esistenza di una cultura patriarcale, dall’altro pensare che una donna che denuncia debba essere creduta a prescindere svuota di senso la funzione del processo e rende sostanzialmente indifendibili imputati, presunti innocenti, già condannati mediaticamente.  I commenti alle sentenze si sprecano, spesso senza averle lette, senza aver seguito il processo, senza aver fatto la fatica di seguire gli snodi cruciali dell’accertamento dei fatti. E ogni assoluzione viene vissuta come una mancanza di giustizia.  Soprattutto, in tema di violenza sessuale, si assiste troppo spesso a libere interpretazioni del testo normativo da parte di una giurisprudenza creativa: se è vero che dal 1996 il reato di violenza sessuale non è più, per fortuna, un reato contro la moralità pubblica, dall’altra parte, però, aver concepito fatti diversi (un conto è lo stupro, un conto è il pur odioso atto di palpeggiamento) entro la stessa fattispecie ha prodotto effetti draconiani per situazioni che, semmai, andrebbero ripensate con una previsione autonoma». Renato Borzone, già presidente dell’Osservazione informazione giudiziaria dell’Ucpi, si chiede se «dietro questi attacchi nessuno fiuti il background di concezioni per le quali lo scopo del “fare giustizia” è connaturato al solo condannare, e per le quali in certi processi, quelli in materia di molestie sessuali, si pretende dai giudici una diversa applicazione delle regole rigorose in materia prova». Una polemica simile c’era stata qualche giorno fa contro la Corte di Busto Arsizio che invece di dare l’ergastolo aveva condannato a ‘soli’ 30 anni di reclusione l’assassino di Carol Maltesi. Il presidente del Collegio è stato costretto a difendere la bontà della motivazione in una intervista al Corsera, concludendo così: «con quale spirito tra pochi giorni la mia Corte d’Assise affronterà un altro processo per un fatto altrettanto cruento? Il giudice non è qui apposta per valutare le circostanze? Se no, ci dicano che possono fare a meno del giudice. E, al suo posto, metterci un juke-box». Ecco, alla luce di tutto questo clamore mediatico c’è da chiedersi con quale serenità d’animo adesso le stesse giudici della V penale del Tribunale di Roma emetteranno la sentenza sul presunto stupro di capodanno.

 

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