Intervista a Stefano Musolino

 di Valentina Stella Il Dubbio 5 marzo 2022

La polemica sulla designazione da parte della Ministra Cartabia di Carlo Renoldi come nuovo reggente del Dap non si placa. Cosa ne pensa di tutto questo un gruppo associato sensibile al tema del carcere come Magistratura Democratica? Lo chiediamo al Segretario Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica a Reggio Calabria, con alle spalle dieci anni, appena trascorsi, alla DDA del capoluogo reggino che gli consentono di discutere sul tema anche in base a quella esperienza.

 

Renoldi è finito sotto attacco per essere stato scelto dalla Ministra Cartabia a diventare il nuovo capo del Dap.  Qual è la vostra posizione in merito?

 

Non abbiamo una posizione specifica, su una scelta che è di esclusiva pertinenza della Ministra. Le polemiche a cui lei fa riferimento sono, essenzialmente, ispirate da una logica “mafio-centrica” che trascura le più complesse qualità e sensibilità richieste a chi è chiamato a dirigere il DAP. Le condizioni di degrado strutturale in cui versano oggi le carceri, le drammatiche insufficienze di uomini e mezzi, il tema della marginalità sociale ristretta negli istituti penitenziari che ne determina il sovraffollamento, la necessità di far uscire il carcere dalla periferia sociale per porlo al centro delle dinamiche culturali e delle politiche degli enti locali. Dovrebbero essere questi i temi su cui valutare l’adeguatezza di Carlo Renoldi.

 

Però le stilettate contro di lui sono arrivate soprattutto per le sue posizioni sul 41 bis.

 

A me pare che le posizioni espresse da Renoldi diano conto della complessità del tema, insofferente ad un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’art. 41 bis O.P. dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; un sistema normativo, figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando.

 

Quindi il 41 bis non può durare per sempre?

 

L’istituto è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale. Invece, secondo alcuni, la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso.

 

A cosa allude quando si riferisce alle inefficienze del 41 bis?

 

Alcune delle previsioni che regolano l’art. 41 bis hanno natura puramente afflittiva e sono, perciò, esorbitanti rispetto alla logica che ispira la necessità di un trattamento differenziato dei dirigenti mafiosi. Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza - anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza - dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all'interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali ed i metodi che caratterizzano l’organizzazione. Ma se questo è vero, dobbiamo anche consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso, la possibilità di emendarsi ed usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi.

 

Quindi come si esce dall'equivoco per cui chi desidera un carcere più umano e rispettoso dei diritti sarebbe uno che vuole depotenziare la lotta alla mafia?

 

Io credo che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Come le ho detto anche in altre occasioni, continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi.

 

È rispuntata la questione Trattativa Stato Mafia: Salvatore Borsellino, sempre sul caso Renoldi, ha parlato di 'ultima cambiale della Trattativa'. Scrive il collega Aliprandi che questo tema riappare sempre per "intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o di ergastolo ostativo".  Che pensa lei?

 

Trattandosi di un tema complesso, è necessario osservarlo da plurime prospettive ognuna delle quali ha aspetti di ragionevolezza. Se non se ne fa un tema da “guerra di religione” ogni contributo è utile a migliorare la comprensione delle poliedriche sfaccettature che ne disegnano l’insieme, migliorando la qualità del compromesso finale tra diritti individuali e ragioni di sicurezza sociale. Mentre rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell'antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l'antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull'antimafia fanno carriera e gran parte della politica.

 

La politica in che senso?

 

Essa non vuole assumersi le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente.  Se pensiamo che da trent'anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata. A tal proposito mi permetta però di aggiungere due parole su quanto letto ieri sul vostro giornale ("Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa" di Damiano Aliprandi, ndr).

 

Prego.

 

Descrivere Md e il dibattito al suo interno come qualcosa di ideologizzato o indifferente ai temi di cui stiamo parlando non fa un servizio alla verità. Le faccio solo un esempio: quando venne resa nota l'indagine a carico dell'ex Ministro Conso nell'ambito del processo cosiddetto sulla Trattativa, Nello Rossi (allora procuratore aggiunto a Roma ed esponente di spicco della corrente di sinistra della magistratura, ora direttore della rivista di Md Questione Giustizia, ndr) difese Conso pubblicamente, attirandosi le critiche anche di altri magistrati. Md è sempre stata ed ambisce ad essere un luogo aperto al confronto ed ispirato dalla curiosità del dialogo, soprattutto su questi temi in cui la tentazione di sfuggire alla complessità con soluzioni semplicistiche o elevare bandiere ideologiche possono costituire freni alla tutela più piena dei diritti coinvolti: quelli individuali e quelli collettivi.

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