Intervista a Marco Bouchard

 di Valentina Stella Il Dubbio 22 dicembre 2021

In merito agli ultimi articoli pubblicati sui controesami interrotti indebitamente dai giudici, raccogliamo il parere di Marco Bouchardgià Presidente della seconda sezione penale presso il Tribunale di Firenze e già sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino.

Dottor Bouchard Lei ha avuto modo di leggere gli articoli che abbiamo pubblicato. Che idea si è fatto di queste vicende? Condivide le preoccupazioni degli avvocati?

Ho la netta impressione che nelle dinamiche dell’udienza penale e negli atti processuali – che si tratti delle motivazioni di una sentenza o di un atto d’appello – si riflettano le condizioni critiche in cui si trovano i protagonisti della giurisdizione: un’identità fragile del magistrato aggrappato ad un autorevolezza perduta ma sorretto da una certa sicurezza economica; il senso di precarietà che colpisce la professione forense e che la pandemia ha profondamente aggravato. Penso che l’insofferenza del giudice e il risentimento dell’avvocatura raccolto da “Il Dubbio” raccontino proprio l’incapacità delle parti di sentirsi costruttori di una comune giurisdizione in tempi di gravissima incertezza sociale, economica e istituzionale. Dar voce all’una e all’altro è compito dell’informazione. Ma occorre anche capire qual è il valore che si vuole perseguire.

In particolare, lei come giudice, avrebbe mai detto ad un avvocato "“ … lei ha parlato la scorsa udienza solo perché questo tribunale ovviamente non può mettere un bavaglio”?

È un affermazione gravissima anche se fosse suscitata da un atteggiamento provocatorio dell’interlocutore. Il mondo della giurisdizione italiana ha però scarsa – se non inesistente – consapevolezza dell’incidenza delle emozioni nelle prassi dell’attività giudiziaria e nelle decisioni. I lavori e le ricerche si contano sulle dita di una mano: cito “Il giudice emotivo” scritto da due avvocati e da un professore di psicologia generale; oppure “Il giudice tra emozioni, biases ed empatia” scritto da una brillante ricercatrice. Avvocatura e magistratura magari organizzano (rarissimi) convegni (spesso a sfondo polemico) ma non lavorano nel quotidiano per rendere il processo un positivo “mercato delle idee”, secondo l’espressione del giudice dissenziente Douglas nel caso United States v. Rumely nel lontano 1953. Ma, come ebbe a dire una giudice visionaria precocemente scomparsa, Teresa Massa, il processo è fondamentale anche “nei momenti di pura comunicazione non scritta, nei messaggi orali e persino non verbali” che le parti si scambiano non solo sugli argomenti giudici ma sui fatti che penetrano nel processo.

“L’invadenza del giudice è certo la prima ragione della fisionomia anomala che l’esame condotto dalle parti assume nella prassi italiana. Anche in mancanza di opposizioni, il giudice raramente si trattiene dall’intervenire nel corso dell’assunzione della testimonianza ad iniziativa del difensore o del pubblico ministero. Osservazioni, rettifiche richieste di chiarimenti sono frequentissime…” (Ennio Amodio, in Francis Wellmann, “L’Arte della cross examination”, a cura di Giuseppe Frigo, Giuffrè, Milano, 2009). Condivide queste parole?

Non c’è dubbio che l’avvocato viva come invadente il giudice che s’intromette nel corso del controesame. Detto questo: il problema è il giudice o è la struttura processuale? O, addirittura, una mancata (completa) assimilazione nella cultura giuridica italiana del principio accusatorio da parte di tutti? Se prendo in considerazione – nel contesto italiano – l’eccellenza nella rappresentazione dei ruoli della pubblica accusa, dell’avvocatura e della magistratura giudicante mi sento di dire che, da parte del giudice, ci sarà sempre la tentazione di inseguire una verità oggettiva e da parte del difensore la ricerca della libertà del proprio assistito come bene superiore a quello della verità. Basterebbe ammettere questo per ottenere maggiore comprensione reciproca e capire che: la verità oggettiva non esiste e che la libertà senza verità è solo preludio ad una prossima schiavitù.

 Ormai si discute da anni di questo problema, ossia delle indebite interferenze del giudice mentre l'avvocato svolge il controesame dei testi dell'accusa o della parte offesa. Come si può risolvere questa patologia? Il presidente dell'Unione Camere Penali ci ha detto, per esempio, "La terzietà è un aspetto cruciale nella formazione del giudice, ma è affidato esclusivamente alla cultura del singolo, e per questo finisce per essere più un'eccezione che la regola". Qual è il suo pensiero in merito?

Io non nego che ci siano nel quotidiano del dibattimento indebite interferenze da parte del giudice così come è esperienza quotidiana assistere a gravi forme di incompetenza professionale nella conduzione dell’esame e controesame sia da parte di pubblici ministeri che di difensori. Detto in parole povere: gli esami diretti sono spesso infarciti di domande nocive o suggestive al di là di ogni cattiva intenzione. La questione, secondo me, è un’altra. Anzi: sono due. Innanzitutto, qual è lo spazio reale d’intervento del giudice – una volta esaurito l’esame e controesame - nell’accertamento della verità processuale di fronte alle lacune delle parti nei loro stessi temi di prova: vogliamo un giudice arbitro e notaio delle eventuali deficienze delle parti o preferiamo un giudice attivo come sembra riconoscere il nostro codice? In secondo luogo e la questione mi ha riguardato personalmente: è meglio un giudice sfinge, che si astiene da qualsiasi valutazione sullo sviluppo processuale e da qualsiasi richiesta sulle strategie processuali, o è meglio un giudice partecipativo, capace di creare una dinamica dialogica non solo con le parti tecniche ma anche con imputati, parti civili e testimoni?

Lei è presidente di Rete Dafne, "un servizio specifico, pubblico e gratuito per l’assistenza alle persone vittime di reato". Molti avvocati lamentano, tra l'altro, che è diventato sempre più difficile poter effettuare un esame sereno della persona offesa, soprattutto in casi di violenza sessuale, dove la presunta vittima è già vittima e l'imputato già colpevole. Non crede che per questo tipo di processi, il ruolo delle difesa, fuori e dentro l'aula, venga svilito perché la partita è persa in partenza?

Sono convinto che una migliorata coscienza delle più diverse e moderne forme di vittimizzazione (dalla violenza maschile verso le donne alle responsabilità umane nei disastri ambientali, dalle malattie professionali alle truffe affettive, per fare solo degli esempi) abbia comportato una sovraesposizione della vittima sia sul piano mediatico sia sul piano processuale. I media, in questo, sono maestri nel sedurla, esaltarla e poi distruggerla. Le vittime sono indotte ad investire e a concentrare i loro bisogni sul giudiziario in modo esasperato. Come persona offesa, la vittima continua a contare ben poco. Come parte civile la vittima si trova a giocare una partita privatistica in un campo propriamente pubblico dove si confrontano accusato e potere statale. Prima o poi bisognerà affrontare questa ambivalenza. Quanto alle vittime di violenza sessuale le vicende giudiziarie italiane dimostrano la persistenza di gravi stereotipi puntualmente censurati ancora recentemente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (27.5.21 J.L. contro Italia): non certo pregiudizi a favore delle vittime. Infine, alla luce della Direttiva 2012/29/UE, dovremmo davvero abbandonare il concetto di “vittima presunta” fondato su un erroneo parallelismo con le presunzione di non colpevolezza. Infatti i diritti della vittima non riguardano, a differenza di quelli dell’accusato, il solo spazio processuale: anche se non denuncia la vittima ha diritto di essere informata, curata, assistita e protetta. Questo fa la differenza. E i bisogni di una vittima colpita da un reato prescritto non si prescrivono all’unisono. 


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