Intervista a Carponi Schittar

 di Valentina Stella Il Dubbio 21 dicembre 2021

Nel 1989 l'avvocato Domenico Carponi Schittar scriveva “Esame e controesame nel processo accusatorio”: un estratto è contenuto nell'appello -  di cui abbiamo dato conto in questi giorni, suscitando anche la polemica dell'Anm di Roma -  che Renato Borzone e Roberto Capra hanno scritto contro la condanna all'ergastolo inflitta a Lee Elder.

Avvocato Schittar, che idea si è fatto degli episodi che abbiamo raccontato?

L’interventismo del giudice può essere frutto o di un equivoco sul proprio ruolo o di ignoranza quanto ai presupposti che condizionano la struttura funzionale del controesame: primo tra tutti una preparazione coerente con  un disegno finalistico – “quello che si vuole ottenere” -  cui  va uniformata l’impostazione del controesame; preparazione che il giudice terzo e ignorante dei fatti  evidentemente non può aver fatto, quindi i suoi interventi per lo più sono impropri. Purtroppo non ci sono contromisure. Ero in Canada, negli anni 80 quando un giudice interruppe un avvocato che controesaminava dicendogli “non mi va questo modo di esaminare”. Si fermò l’avvocato e si fermò tutta l’avvocatura canadese finché la Suprema Corte uscì con la statuizione “solo l’avvocato è arbitro del proprio esame”. Da noi questo sarebbe inconcepibile.

Quanto può pesare sull'accertamento della verità processuale l'invadenza del giudice?

A molti giudici sfugge che il controesame è sempre produttivo positivamente per il processo. È utile se ha successo l'obiettivo di chi interroga di portare a galla una certa verità prima taciuta o mascherata. È utile se l'obiettivo fallisce in quanto viene avvalorata la verità già uscita dall’esame diretto. Conseguentemente, se il fine del processo è giungere a “una” verità,  qualsiasi interferenza  del giudice è sempre potenzialmente  dannosa in quanto può vanificare l’uno e l’altro risultato.

Quali sono i limiti che avvocato e  giudice non dovrebbero superare durante una controesame?

Quanto al giudice basti pensare che in un rigoroso sistema accusatorio gli sarebbe interdetto perfino di porre domande a chiarimenti che non siano a favore dell’imputato. Quanto all’avvocato per lo più sono limiti di opportunità (solo ad esempio: può talora essere sconveniente creare un’atmosfera tesa); il solo limite  sostanziale è la continenza (aderenza delle domande ai fini perseguiti). Il problema è che il comprendere se il limite è stato rispettato è un posterius: lo si può stabilire solo ad esame concluso. Di qui l’inopportunità di interventi  in corso d’opera.

Lei nel 1989 scriveva “Esame e controesame nel processo accusatorio”. Qual è lo stato dell'arte?

Rispondo adattando agli esami orali quanto il prof. Glauco Giostra scrisse con riferimento all’intero  codice; ossia che  ci troviamo in presenza di una struttura  “farcita di antinomie, compromessi, pasticci, incongruenze, ambiguità” che ha prodotto “un sistema  scompensato, in instabile e precario equilibrio (…) mai andato a  regime . Lo ha impedito, tra altre cause, l’impreparazione (...) culturale ”.

 Il presidente dell'Ucpi Caiazza ci ha detto: La terzietà è un aspetto cruciale nella formazione del giudice, ma è affidato esclusivamente alla cultura del singolo, e per questo finisce per essere più un'eccezione che la regola. 

 Ha sacrosanta ragione. Il concetto di terzietà può essere percepito (e attuato) pienamente soltanto da chi  condivida (e  conseguentemente “viva”) che  il giudice penale è in primis il garante nei confronti dell’ imputato della giustizia del processo.  Ecco, tornando alla prova, che chi si investa di tale ruolo difficilmente sbaglierebbe nell’intervenire inappropriatamente in un esame.

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