Intervista a Giovanna di Rosa

 di Valentina Stella Il Dubbio 10 dicembre 2021

 Per la dottoressa Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, il testo base sull'ergastolo ostativo ha il limite di mettere in secondo piano il percorso trattamentale del detenuto. Sull'accentramento delle istanze al Tribunale di sorveglianza di Roma aggiunge:  «tende a sminuire il valore e la competenza della magistratura di sorveglianza e si pone in piena distonia con l'ordinamento penitenziario».

Qual è il suo giudizio sul testo base?

In attesa di conoscere gli emendamenti, possiamo affermare che il testo base rende ardua la concessione delle misure alternative per varie ragioni, la prima delle quali è la sussistenza di alcuni stringenti requisiti. Si richiede, ad esempio, che l’adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato sia “integrale” o che l’impossibilità di tale adempimento sia “assoluta".

Per quanto concerne l'allegazione in capo al detenuto?

Anche in questo caso l'uso dell'aggettivazione è stringente: "congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione".  Ancora una volta si ribadisce la rigorosità dell’accertamento. Inoltre deve essere “certa” l'esclusione di collegamenti presenti e futuri con l'organizzazione criminale, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti, o mediante terzi. Si tratta di giudizi di difficile, se non impossibile, accertamento. Bisogna infatti chiedersi a tal proposito se sia possibile una esclusione certa di un pericolo. Vorrei ricordare che la Corte di Cassazione in una recentissima sentenza, richiamando la  sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, da cui è sorta l’esigenza dell’intervento normativo in esame, ha espressamente affermato che la non ammissibilità di una prova negativa in capo al detenuto. La normativa inoltre afferma incidentalmente la rilevanza del cambiamento della personalità del detenuto come requisito rilevante per la concessione dei benefici, in quanto fa richiamo solo alla regolarità della condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo da parte del detenuto medesimo. Invece, il mutamento effettivo e pieno di personalità costituisce il dato più pregnante e adeguato per ritenere provata la rescissione dai legami con la criminalità organizzata.

In merito alla attività istruttoria? Il magistrato di sorveglianza deve chiedere il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e in alcuni casi anche del Procuratore nazionale antimafia.

È prevista l’acquisizione dei pareri del pubblico ministero e del procuratore nazionale antimafia. Il magistrato di sorveglianza, se disattende i medesimi, è tenuto a indicarne gli “specifici motivi” a fondamento della sua valutazione. Peraltro, le informazioni che provengono dalle Procure si sviluppano di fatto sulla base dei pregressi fattori di collegamento con la criminalità organizzata, legati alla commissione di reati, sempre commessi in epoca molto risalente.  Sono poi richiesti controlli sulla capacità economica del detenuto attraverso indagini bancarie e presso gli intermediari finanziari. Si sarebbe, invece, potuto fare un discorso più ampio di verifica della situazione patrimoniale anche dei familiari perché, com'è noto, le associazioni mafiose, se mantenute in vita, continuano a mantenere i parenti dei carcerati.

C'è anche il problema dell'aumento degli anni di detenzione a partire dai quali si può chiedere la liberazione condizionale.

Si tratta di un altro dato che vuole essere di rinforzo per la disciplina: i ventisei anni sono ora diventati trenta. Si tratta di una legittima scelta legislativa, ancorchè il periodo di ventisei anni in carcere è già molto ampio e allontana nel tempo il reato. Non dimentichiamo poi che molti detenuti espiano il reato associativo in regime di 41bis, il che impedisce già di per sé di mantenere contatti con il clan. È assente, infine, il riferimento a ipotesi di giustizia riparativa, rimanendo quindi ancora una volta sullo sfondo il tema del mutamento della personalità del detenuto.  

Quindi andiamo verso un 'nuovo ergastolo ostativo'?

Dal testo in esame sembra emergere una linea di tendenza volta a restringere la possibilità di accedere alla liberazione condizionale e alle misure. Lo spazio di decisione per la magistratura di sorveglianza sembra infatti ridursi a causa di aggettivi stringenti e percorsi rigidi che non valorizzano l’attuale personalità del condannato. Probabilmente la normativa è orientata a finalità di prevenzione generale, rivolta alla generalità dei consociati e ai potenziali autori di reati.  

Al momento nel testo base non c'è, ma ci potrebbero essere degli emendamenti, sulla scia anche delle parole del consigliere Nino Di Matteo, per accentrare tutto sul Tribunale di Sorveglianza di Roma. È giusto pensare che forse qualcuno teme una magistratura - mi passi il termine - 'garantista', che nella prossimità con detenuto capisca che può lasciare il carcere?

Questa ipotesi, che sembrava accantonata, riproduce il modello della normativa sulla competenza del Tribunale di Sorveglianza di Roma sulle impugnazioni dei decreti ministeriali che dispongono il regime di cui all’art. 41 bis. L'auspicata omogeneità della decisioni deve fare inoltre i conti con le norme sulla valutazione del magistrato di sorveglianza. Egli deve infatti conoscere ogni detenuto sottoposto al suo giudizio. Detta ipotesi inoltre pare contrastare con l'ordinamento penitenziario che impone che le decisioni sul detenuto vengano assunte da un collegio nel quale deve essere presente il magistrato competente sulla posizione giuridica del detenuto medesimo. Del resto, è proprio alla base della sentenza 253 della Corte Costituzionale il principio di individualizzazione del trattamento. Bisogna infatti guardare al cambiamento dell'uomo nella sua specificità.

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