Intervista a Luigi Manconi su ergastolo ostativo

 di Valentina Stella Il Dubbio 3 dicembre 2021

 

Per Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, presidente di A Buon Diritto Onlus, in tema di ergastolo ostativo « il Parlamento invece di sviluppare coerentemente il principio indicato dalla Corte, sembra impegnato alacremente a disattenderne l’indirizzo, a contraddirne le finalità, a incepparne la piena attuazione. Non un sabotaggio, bensì un lavoro ai fianchi piccino e mediocre».

In queste ultime settimane si sta discutendo molto di ergastolo ostativo. La sensazione è che si voglia in qualche modo sabotare la decisione della Corte Costituzionale, per tornare ad un 'nuovo ergastolo ostativo'. Condivide questa preoccupazione?

Condivido, anche se non userei il verbo “sabotare”, perché questo presupporrebbe una potenza compatta e determinata, un progetto alternativo e  un’ intelligenza aggressiva e lungimirante: tutte cose che fatico a individuare.  Ciò che emerge è, piuttosto, un umore profondo che percorre il Paese, non solo accettato supinamente, ma enfatizzato e galvanizzato dalla classe politica: ed è un umore tutto ispirato a propositi di rivalsa e a pulsioni di rancore e di vendetta. Da questo punto di vista, l’ergastolo è un tema cruciale: quante volte abbiamo letto e ascoltato, persino da persone stimabili, che in Italia nessuno sconta l’ergastolo. Eppure, non è difficile trovare i dati: quelli che ho qui sotto mano dicono che complessivamente i condannati all’ergastolo sono 1800, dei quali 1271 sottoposti a ergastolo ostativo. E la costante crescita del numero complessivo delle condanne a vita si deve principalmente all’aumento di quelle ostative. Ma chi ricorda questi numeri inequivocabili? I soliti quattro gatti, oltre che Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto, autori di un libro fondamentale come Contro gli ergastoli, edito da Futura. E mi piace ricordare un episodio della vita bella e appassionata di Bianca Guidetti Serra, grande avvocato torinese. Nel 1957, Guidetti Serra si era offerta di difendere gratuitamente in appello un condannato all’ergastolo, un pluriomicida reo confesso che non aveva mai conosciuto: non già per sottrarlo a una inevitabile condanna, ma al suo esito, come occasione di pubblica denuncia dell’incostituzionalità di una pena senza fine, inaccettabile quale che sia la colpa. Altri tempi!

Non sarebbe stato meglio che la Consulta avesse deciso senza lasciare il compito al Parlamento di fare una legge?

Forse. Ma è tema per i costituzionalisti e io non lo sono. In ogni caso, resta che la Consulta è stata, a mio avviso, assai limpida nella sua pronunzia. Ma, come nel caso certo diverso, eppure altrettanto e forse più scandaloso dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale è stata di un ottimismo quasi irenista: direi spensierato, se non temessi di offendere quei valorosi giudici. Il Parlamento, per tornare alla sua prima domanda, invece di sviluppare coerentemente il principio indicato dalla Corte, sembra impegnato alacremente a disattenderne l’indirizzo, a contraddirne le finalità, a incepparne la piena attuazione. Come dicevo, non un sabotaggio, bensì un lavoro ai fianchi piccino e mediocre.

Non ritiene che sia sbagliata la narrazione di chi sostiene che appoggiare la linea della Consulta significhi vanificare la lotta alla mafia?

Se posso rivolgere una preghiera a una cronista valente come lei, le chiedo di non ricorrere al termina “narrazione”. Tanto abusato da risultare ormai incapace di esprimere un qualsivoglia significato minimante congruo. Detto questo vorrei richiamare un concetto base. Il regime di 41-bis e lo stesso dispositivo dell’ergastolo ostativo si fondano su una, e una sola, ragione costitutiva. Si considerino il comma 2, il comma 2-bis e il 2-quater dell’articolo in questione e si troverà come la finalità di quel regime sia dichiaratamente quello di impedire “la “sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva”, di “ mantenere i collegamenti con l'associazione” e di “prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento”. Questa è la ratio di quella norma. Aggiungo: la sola ed esclusiva motivazione, puntualmente e tassativamente definita e circoscritta dalla legge. Ne consegue che tutto ciò che a quella finalità di legge viene aggiunto, in termini di afflizione e privazione, è semplicemente illegale. Ne discende ancora che anche quella formula che tutti tendiamo a utilizzare - “carcere duro” - non ha alcun fondamento. Il regime di 41-bis non comporta, non deve comportare, una detenzione particolarmente pesante e, tanto meno, inumana e vessatoria. Il suo scopo, va detto e ridetto, è solo quello di troncare e impedire qualsiasi relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. E per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, la pronuncia della Consulta nel merito, è stata limpida: la norma è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione italiana e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani: proprio perché fa della collaborazione con la magistratura l’unico modo per il condannato di ottenere la liberazione condizionale, “anche quando il suo ravvedimento risulti accertato”. Quel contrasto, tra la norma “ostativa” e costituzione e Cedu, dal punto di vista del condannato, appare come privazione della sua “stessa possibilità di sperare nella fine della pena”. Dunque, chi pensa che per il condannato all’ergastolo per mafia vi sia solo l'alternativa: o la collaborazione o la morte in cella (Rosy Bindi, ndr) , replica un po’ mestamente l’espressione di Ignazio Di Loyola: perinde ac cadaver. Ma, notoriamente, il fondatore della Compagnia di Gesù, certo grande santo, non ha preso parte ai lavori della Costituente.

Secondo Nino Di Matteo nel testo base in discussione alla Camera  "manca la previsione  della specifica attribuzione di competenze (per decidere sulla concessione dei benefici, ndr) a un unico Tribunale di sorveglianza, che potrebbe essere quello di Roma. Preoccupa invece la frammentazione delle competenze che potrebbe produrre effetti pericolosi sotto il profilo della sicurezza dei giudici di sorveglianza chiamati a decidere". Ma lo stesso rischio non lo corrono anche i giudici che condannano, ad esempio?

Stupirò qualcuno dicendo che provo stima e affetto per Nino Di Matteo e per il suo amico Sebastiano Ardita, pur se non condivido alcunché della loro concezione della giustizia.D’altra parte è tutta la vita che coltivo “relazioni pericolose” con persone dalle quali tutto o quasi  mi divide, sul piano ideologico e politico. Nel merito non sono proprio d’accordo. Mi sembrerebbe che, se accolta, la proposta di Di Matteo sulla magistratura di sorveglianza, potrebbe sottrarre il condannato al suo giudice naturale. Che, oltretutto, è quello maggiormente in grado di verificare la condotta dello stesso, di esaminarne il comportamento carcerario, di esprimere una valutazione - per quanto fallibile - sul processo di emancipazione del reo dal proprio reato. Dunque di concedere o negare motivatamente benefici e opportunità.

In generale, non ha l'impressione che sul tema carcere non si stiano facendo grandi passi avanti dal punto di vista politico e culturale?

Sì, penso proprio che non si stiano facendo grandi passi avanti, ma nemmeno modesti progressi. Il forte slancio innovativo e garantista, promosso dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, e alcuni gesti davvero importanti, come la visita della stessa Ministra e del Presidente del Consiglio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo i noti fatti, non sembrano aver smosso quell’enorme corpaccione torpido che è l’amministrazione della giustizia e  quella sua articolazione rappresentata dal DAP. Ancor meno ha contenuto le tentazioni regressive che sembrano prevalere all’interno della classe politica.
Di conseguenza, la situazione interna delle carceri, nella sua materialità e nella sua ruvida concretezza, non sembra aver conosciuto alcun mutamento significativo. Prova ne è, tra le tante, il fatto che la pandemia non ha determinato - se non in maniera minimale e contingente - quei provvedimenti deflattivi “di salute pubblica” che la condizione congestionata e patogena degli istituti avrebbe richiesto. Si pensi, ancora, alla situazione del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Torino, denunciata da Susanna Marietti di Antigone e da La Stampa, e che, infine, sembra sia stata affrontata dal DAP. Ma non riesco a dimenticare che la prima denuncia delle condizioni inumane di quella sezione risale all’ottobre del 2016; e non è difficile immaginare quanto dolore inutile - se pure mai vi fosse un dolore utile - e totalmente “illegale”, questo intollerabile ritardo abbia prodotto. Insomma, devo dire che più invecchio e più sono convinto del fatto che si debba operare per rendere il carcere una istituzione superflua. Sia chiaro: progressivamente, gradualmente, attraverso tutte le riforme realizzabili e già oggi possibili: ma la galera si conferma un’istituzione patogena e criminogena, inutile e pericolosa. Ridurne al minimo il ricorso è una urgenza morale e una prospettiva di elementare buon senso. Nei tempi necessari, ovviamente. Persuasi di questo, proprio in queste settimane, stiamo scrivendo con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, una nuova edizione di Abolire il carcere, che verrà pubblicata da Chiarelettere tra qualche mese. 
Servirà a qualcosa? Probabilmente no, ma testimoniare e lasciare una traccia non è mai esercizio futile.

 

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