Cronologia del processo eni nigeria

 Valentina Stella dubbio 29 giugno 2024

Secondo la Procura di Milano era la più grande tangente mai pagata da un'azienda italiana. Alla fine quella inchiesta si è risolta in un buco nell’acqua, stravolgendo anche gli equilibri all’interno della procura del capoluogo lombardo e portando a processo i due magistrati requirenti che avevano condotto le indagini. Stiamo parlando del noto processo Eni/Shell Nigeria che nel 2017 riempì  le prime pagine di tutti i giornali. L'indagine condotta dall'aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro puntava a dimostrare il pagamento di una maxi-tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata da Eni e Shell, imputate per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti,  ai politici locali nigeriani per ottenere nel 2011 la licenza sui diritti di esplorazione del giacimento locale «Opl245», un'area delimitata situata in acque profonde, circa 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger. Nel dicembre del 2017 il tribunale di Milano rinviò a giudizio gli indagati. Poi il processo che si concluse con l'accusa che chiese condanne pesanti per tredici persone, tra cui: dieci anni per l'ex Ministro nigeriano Dan Etete e otto anni per l'attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l'ex numero uno, Paolo Scaroni.   A detta dei pubblici ministeri si sarebbe trattato appunto della più grande tangente internazionale mai scoperta in Italia: tutto spiegato in 304 di memoria che poi furono messe nel tritacarte dai giudici milanesi, dopo circa tre anni di processo. Infatti il 17 marzo 2021 furono assolti in primo grado perché  «il fatto non sussiste» tutti gli imputati. Assolte anche le due società - Eni e Shell. A deciderlo fu la settima sezione penale del Tribunale di Milano, presieduta dal giudice Marco Tremolada, dopo oltre sei ore di Camera di Consiglio; il dispositivo della sentenza fu letto nell'aula appositamente creata alla Fiera di Milano. Per il collegio presieduto mancavano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato».  Il dibattimento fu caratterizzato da una vicenda inquietante: l’accusa sarebbe stata in possesso di prove che avrebbero potuto contribuire a provare l’innocenza degli imputati, prove tenute però nascoste. Tra queste un video girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà dell'ex mananger Vincenzo Armanna  di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica contro la società. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società. Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. De Pasquale, nel corso del processo, ammise di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averla né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». E proprio per tale motivo i due magistrati sono finiti sotto processo per rifiuto di atti d’ufficio. Ma c’è di più. Nel luglio 2022 il sostituto pg di Milano Celestina Gravina rinunciò ai motivi d'appello nel processo di secondo grado. La rinuncia all'impugnazione che aveva presentato la Procura fu comunicata in aula dal pg all'apertura di udienza con parole durissime nei confronti dei colleghi inquirenti. La Gravina parlò di «vicende buttate lì come una insinuazione», della «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» portati dalla Procura per sostenere l'accusa di corruzione internazionale, ma anche di «colonialismo della morale» da parte «del pm». Il pg, nel chiudere il suo intervento, affermò che «questo processo deve finire perché non ha fondamento» aggiungendo che gli imputati «che per 7 anni sono stati sotto procedimento hanno il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all'economia processuale e alle regole del giusto processo». Tale atto confermò l'assoluzione di primo grado per i 15 imputati - 13 persone fisiche più le due società Eni e Shell - che divenne definitiva. Tuttavia contro il verdetto fece ricorso la Nigeria, costituita in sede penale ai soli fini civili con la richiesta di un risarcimento di oltre un miliardo di euro. Istanza alla quale aveva rinunciato l'ambasciatore in Italia della repubblica federale africana, chiedendo l'estinzione del procedimento, al pari dei difensori di Claudio Descalzi e Paolo Scaroni che avevano chiesto alla Suprema corte di dichiarare l'estinzione del rapporto processuale. Una richiesta accolta dalla Cassazione a giugno 2024. Inoltre nel 2021 furono assolti, in un processo parallelo, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i due presunti mediatori della corruzione internazionale. Dunque quello che sarebbe dovuto essere lo scandalo giudiziario del secolo è terminato con un incredibile ribaltamento dei ruoli: gli imputati tutti assolti  e i magistrati dell’accusa finiti sotto processo proprio per come hanno condotto l’inchiesta. Nonostante tutto questo, incomprensibilmente, la procura di Milano sta portando avanti un terzo processo sulla presunta corruzione internazionale contro Aliyu Abubakar, faccendiere nigeriano accusato di aver distribuito 500 milioni della mazzetta miliardaria che già due sentenze passate in giudicato hanno stabilito non essere mai esistita. E l’autore di tutto chi sarebbe? Proprio il pm Fabio De Pasquale, che nessuna ragione di (in)opportunità ha portato a rinunciare. 

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