Bibbiano: intervista a Manes

 Valentina Stella Dubbio 3 giugno 2024


Ancora prima che terminasse la celebrazione dell’udienza preliminare, uno dei protagonisti del «caso Bibbiano», lo psicoterapeuta Claudio Foti, assolto in via definitiva, fu cacciato da un ristorante emiliano in quanto - disse il ristoratore - «non do da mangiare ad un lupo che rapisce i bambini». I giornali lo avevano dipinto in questo modo, così come la psicoterapeuta Nadia Bolognini, di cui erano circolate immagini ritoccate, insieme alle intercettazioni dei carabinieri. I mostri erano stati serviti al pubblico e la loro reputazione rovinata. Poi si è scoperto che questa era una delle tante fake news dell’inchiesta e che nessuno tra gli imputati si era travestito da animale per spaventare i bambini. Ma oggi cosa rimane di quella narrazione? Come ci spiega il professore e avvocato Vittorio Manes, autore di «Giustizia Mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo», «la memoria collettiva è come una pellicola ad altissima sensibilità, viene subito impressionata, e quelle immagini impressionistiche vi si sedimentano, anche se successivamente il dibattimento processuale e/o le assoluzioni smentiscono quel racconto». Ma facciamo un passo indietro. L’inchiesta del 2019, definita impropriamente ‘Angeli e Demoni’, è stata caratterizzata, ci spiega ancora Manes, «da una campagna mediatica violentissima, costruita addirittura su dati che nulla avevano a che fare con il processo, ad esempio si parlò perfino di elettroshock. Circostanza che dovette essere poi smentita dal procuratore durante una conferenza stampa». Ricordiamo, infatti, tutti le prime pagine di quel periodo: «Emilia, le carte horror sui ladri di bambini a colpi di elettrochoc», «bambini suggestionati da impulsi elettromagnetici ed elettrodi applicati su mani e piedi», «lavaggi del cervello e scosse ai bimbi per darli in affido». Per il professor avvocato, poi, «abbiamo assistito al rovesciamento della presunzione di innocenza perché sono stati tutti condannati a furor di popolo già in fase di indagine». Per di più «si tramandò addirittura un messaggio contrario a quello che successivamente ha accertato il processo, ossia che i terapeuti facevano del male ai bambini. L’oggetto invece dell’accertamento processuale è stato l’opposto: i terapeuti adottavano linee curative eccessivamente precauzionali nei loro confronti». Si tratta della «tipica deformazione delle campagne mediatiche che allontanano e distorcono i dati fattuali e processuali, creando una realtà parallela completamente diversa da quella che si delinea nell’aula di Tribunale». Un aspetto singolare, sottolinea il direttore della rivista dell’Ucpi ‘Diritto di difesa’, è che «la narrazione mediatica e il tribunale della pubblica opinione hanno effettuato un’opera di semplificazione e omologazione dei differenti contributi soggettivi in un unico giudizio di disvalore che ha annichilito ogni differenza, e ogni prospettiva, schiacciando le diverse figure su una tabula rasa simile ad una pala d’altare della pittura sacra duecentesca». Inoltre «questa omologazione ha obliterato non solo la diversità di contributi rispetto al medesimo fatto, ma anche la diversità di fatti storici riferibili ai diversi soggetti, di regola magnetizzati e inglobati nel fatto contrassegnato dal maggior disvalore: in questo caso i presunti abusi terapeutici su minori sono stati affiancati, mescolati e confusi con irregolarità amministrative riferibili, in tesi di accusa, alla commissione di reati contro la Pubblica amministrazione o contro la fede pubblica, così estendendo a soggetti del tutti estranei contestazioni mosse ad altri, e nondimeno imputate mediaticamente ‘per fatto altrui’». In pratica «sul palcoscenico mediatico si è perso ogni confine tra protagonisti, comprimari, comparse così come ogni distinzione tra coloro che magari – rispetto al fatto concreto – risultano solo corifei o semplici spettatori, e tutti finiscono protagonizzati al medesimo livello e appiattiti in una sorte di responsabilità collettiva che reclamava parallelamente una punizione collettiva». «Per fortuna  - ha proseguito Manes - l’itinerario processuale ha avuto la forza di ripristinare la corretta dimensione degli accadimenti e di riportare l’accertamento sulle coordinate più corrette, addirittura rovesciando e smentendo alcune tesi accusatorie nel corso del dibattimento che sta avendo la capacità, come non sempre accade, di ripristinare le corrette prospettive, ridando ai protagonisti la giusta posizione». Ricordiamo che il gip nel rimettere in libertà i due indagati scrisse nel provvedimento: «concordemente con il pm deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». «Paradossalmente – ha commentato Manes – possiamo dire che forse l’unica ricaduta positiva che ha avuto questa assurda campagna mediatica è che in taluni casi è valsa a sterilizzare le misure cautelari». Mentre, come abbiamo scritto all’inizio Foti è stato definitivamente assolto in un rito abbreviato, prosegue il processo ordinario: «vedremo che esito avrà e se i giudici riusciranno a resistere alle pressioni mediatiche». 


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