«Caso Marta Russo, è bastato quel granello di polvere...»

 di Valentina Stella Il Dubbio 31 maggio 2021

A 24 anni dall'omicidio di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola in un vialetto della città universitaria di Roma, Chiara Lalli e Cecilia Sala tornano a chiedersi se davvero il caso sia chiuso o se in giro ci sia un assassino a piede libero. Lo fanno nel libro 'Polvere' (Mondadori, pag. 180, euro 18), dopo aver riletto gli atti e parlato con i protagonisti di questa storia. Inizialmente i sospetti si concentrarono su un bagno al piano terra accanto ad un magazzino della ditta di pulizie. I dipendenti lo chiamavano «il deposito delle munizioni», avevano il porto d’armi e sparavano al poligono. Ma poi la scientifica scoprì una particella di polvere da sparo  - da qui il titolo -  sul davanzale dell’aula 6, al primo piano della Facoltà di Giurisprudenza. Quel granello di polvere, insieme ad alcune testimonianze contraddittorie, portò alla condanna per omicidio colposo di due assistenti universitari, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, nonostante non conoscessero la vittima e non avessero un movente per ucciderla. L'arma del delitto non fu mai ritrovata. «La perizia della scientifica però è sbagliata - scrivono le autrici -  il granello di polvere non è con certezza un residuo di sparo, potrebbe essere quello dei freni di una vecchia Panda». Eppure ciò non è bastato ad evitare forse uno dei più grandi errori giudiziari della nostra storia.

Chiara Lalli perché dopo tanto tempo scrivere un libro su un caso giuridicamente chiuso?

È un caso che ha lasciato molte domande senza risposta, con un impianto accusatorio per nulla solido. E se ci trovassimo dinanzi a un errore giudiziario e avessimo perso per sempre l'occasione di trovare il vero colpevole? La domanda è inquietante sia se riferita al caso sia pensando che un giorno potremmo noi trovarci schiacciati da una macchina inadeguata e incapace di correggersi. Per questo Cecilia Sala e io abbiamo ripercorso le fasi delle indagini e del processo per capire se tutto tornasse e la risposta è negativa. Più andavamo avanti nelle nostre ricerche, più i dubbi aumentano.

Il primo dubbio dà proprio il titolo al libro: lo stesso perito della Corte disse che la particella trovata sul davanzale non era con certezza polvere da sparo. Tuttavia quel dettaglio indirizzò tutte le indagini. Cosa vi ha impressionato di più del lavoro degli investigatori?

Credo che l'aspetto che più ci ha sorprese sia stata l'incapacità di correggersi e tornare indietro per ricominciare. Gli inquirenti hanno seguito un percorso - particella, aula 6, telefonata a casa Lipari - da cui non si sono mai scostati. Si sono innamorati di quella idea e hanno giustificato tutto in base a quello. Da quel momento l'impianto accusatorio si baserà sulle testimonianze oculari che - ricordiamo bene - non solo sono fragili di per sé ma in questo caso contraddittorie e sollecitate da parte degli investigatori.

Lei si riferisce a Chiara Lipari e Gabriella Alletto.

Esatto. La prima nei primi giorni dopo il delitto dichiarò di non aver visto nessuno nell’aula 6 ma poi, dopo aver parlato con gli investigatori, cominciò a collocarvi diverse persone. Addirittura in una intercettazione disse: «e questi fino alle cinque di mattina hanno voluto assolutamente che dal subconscio…dall’ano proprio del cervello, mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine».

Ancora più eclatante fu il caso della Alletto, il cui video dell'interrogatorio da parte dei magistrati Carlo Lasperanza e Italo Ormannni portò l'allora premier Romano Prodi a dire che si trattava di una «vicenda gravissima».

Anche lei, unica testimone di qualcosa di penalmente rilevante, fu multiversione: per sei settimane sia agli inquirenti che nelle conversazione intercettate con gli amici disse di non aver visto nulla. Lo confermò pure durante una conversazione, avvenuta nella stanza dell'interrogatorio del pm Lasperanza, tra lei e suo cognato, l’ispettore di Polizia Luigi Di Mauro, che l’aveva accompagnata a deporre: «Ma Gì, io non ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli. […] Ma io devo essere una persona leale o una persona sleale, Gino?“; il cognato non aveva dubbi: “Devo essere? Oh! Quando ci so’ sti reati qua, devi essere sleale!».

Sono racconti impressionanti a cui aggiungiamo il fatto che l'arma del delitto non è stata mai trovata e che ad un certo momento il movente è stato rintracciato nell'assenza di movente.

Quest'ultimo punto è pazzesco: il fatto che non si riuscisse a trovare un movente portò la Procura a ipotizzare il delitto perfetto, peraltro sulla base di elementi surreali come i libri letti dai due indagati e i loro diari. Tutto era considerato probante in base al pregiudizio di colpevolezza. Questo è accaduto anche in altre vicende giudiziarie dove gli inquirenti si sono innamorati di un'ipotesi di lavoro e solo in base ad essa hanno vagliato fatti e testimonianze.

Un altro elemento molto interessante del libro è che avete rintracciato un testimone che resta anonimo nel libro e che avrebbe un'altra versione. Sarebbe disposto a parlare oggi per cercare di riaprire il caso?

Non credo, altrimenti lo avrebbe già fatto. La sua testimonianza oculare - che come tutte va presa con cautela - però è importante perché sarebbe un ulteriore elemento che mostra l'inaffidabilità delle dichiarazioni della Lipari.

Perché all'epoca non ha parlato?

Il clima era molto pesante: chiunque provasse a difendere Scattone e Ferraro veniva accusato di star mentendo e minacciato di essere incriminato per falsa testimonianza o favoreggiamento.

La vicenda è stata caratterizzata anche da un forte impatto mediatico che non lasciò scampo ai due condannati neanche dopo. Per esempio Scattone, pur avendo ottenuto un posto di ruolo come docente, decise di abbandonare la cattedra per le polemiche.

Questa storia merita di essere raccontata anche per questo che è un problema enorme e che riguarda il nostro sistema giudiziario e sociale: se il carcere ha una finalità rieducativa, una volta scontata la pena le persone dovrebbero poter avere la possibilità di essere riammessi nella collettività senza portarsi addosso uno stigma.  Altrimenti a cosa serve il carcere?

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