Recensione a Vendetta pubblica

 di Angela Stella Il Riformista 4 febbraio 2021

Qualche anno fa, un detenuto ospitato a Regina Coeli, che stavo intervistando perché vincitore del Premio Goliarda, mi disse: «il carcere è una cantina sociale: nelle cantine delle nostre case riponiamo gli oggetti che non ci servono più, qui abbandoniamo le persone di cui vogliamo dimenticarci. Quello che succede al di là del muro non interessa a nessuno». Aveva perfettamente ragione: il carcere vive nell'indifferenza o ignoranza collettiva e, fatta qualche eccezione, anche la politica non riesce ad occuparsene come Costituzione vorrebbe. Il tema rimane circoscritto in una nicchia culturale di addetti ai lavori  o tra realtà che si spendono per il rispetto dei diritti umani dei detenuti. In questo contesto, dunque, appare di estrema importanza l'opera divulgativa di Marcello Bortolato, magistrato dal 1990 e attualmente Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriera della Sera, che co-firmano il libro «Vendetta pubblica Il carcere in Italia» (Editori Laterza 2020, pag. 160, euro 14). Gli autori compiono un viaggio tra i luoghi comuni che connotano la narrazione del carcere e della pena, contaminata dal virus del populismo penale. Ad ognuno di essi è dedicato un capitolo: «Alla fine in carcere non ci va nessuno», «Dentro si vive meglio che fuori», «Bella vita: vitto e alloggio gratis e tutto il giorno davanti alla tv», «Ci vorrebbero i lavori forzati», «Condannato per omicidio, gode di permessi premio». L'obiettivo del libro diviene pertanto quello di sfatare tutti questi falsi miti attraverso ricostruzioni storiche, dati scientifici, citazioni letterarie e filosofiche. «Negli anni Settanta - scrivono Bortolato e Vigna - Michel Foucault parlava del carcere come di un "fallimento continuo". Utilizzava l'espressione "scacco della giustizia penale": il carcere dovrebbe fare in modo che alla fine non ci sia più carcere. Invece ogni volta smentisce se stesso, perché per sua natura genera a sua volta reati, se non è rieducativo». Infatti, secondo gli autori, sebbene nella storia la pena abbia avuto diverse funzioni - retributiva, special preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale - , la Costituzione italiana prevede che essa debba prima di tutto rieducare: chi è in prigione è parte della nostra comunità e la maggior parte dei reclusi, prima o poi, comunque esce. Come vogliamo che ritornino in società? Incattiviti per aver vissuto in condizioni indegne o speranzosi in un futuro migliore? Dipende da noi e dalle nostre scelte di politica giudiziaria e penitenziaria.  Ci aiutano nelle nostre decisioni i dati statistici: in Italia la recidiva degli ex detenuti è record – sette su dieci tornano a delinquere – ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare o studiare. Quindi, ammoniscono gli autori, «rinunciare a occuparsi del dopo è una politica da struzzi», sbandierare sui social «Lasciamoli marcire in carcere!» come banale slogan acchiappa like non solo rappresenta la negazione del nostro Stato di diritto in cui tutti noi viviamo, ma è controproducente per l'amministrazione sociale. Ad un linguaggio politico violento che alimenta un odio collettivo verso chi commette un reato va contrapposta una analisi lucida che parte dalla domanda «a cosa serve la pena?». Il punto fondamentale - dicono gli autori - «è che non bisogna sempre pensare al carcere come unica risposta anche per i reati meno gravi». Pensiamo ai reati finanziari: «può far piacere al risparmiatore vedere il direttore della banca o un grande finanziere che ha commesso qualche crimine ai suoi danni finire in carcere per questo. Ma l'esperienza ci dice che in tali casi sarebbero assai più efficaci sanzioni pecuniarie o interdittive». Di fronte a chi invece sostiene la funzione deterrente della pena, Bortolato e Vigna richiamano il caso degli Stati Uniti dove «nonostante il tasso di carcerazione più alto al mondo e pene elevatissime le persone continuano a delinquere, pure negli Stati in cui è ancora prevista la pena di morte». Dunque certezza della pena non deve significare solo certezza del carcere e Bortolato e Vigna lo dimostrano nei vari capitoli, di cui non vi anticipiamo altro, se non la conclusione: «la vittima, sia essa collettiva o individuale, non può trovare soddisfazione nel fatto di vedere il suo carnefice semplicemente chiuso in una cella [...] una pena che sia solo vendetta pubblica e null'altro ha fallito il suo scopo».  

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