18 anni per essere assolti

 di Valentina Stella Il Dubbio 3 febbraio 2021

È normale che un processo si concluda dopo 18 anni dai fatti e tenga in scacco la vita di tre persone per così tanto tempo? È quello che è successo a Crotone e Catanzaro, dove due giorni fa la Corte di Appello ha assolto tre poliziotti con formula piena «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di sequestro di persona e lesioni. Due dei tre imputati, Tommaso Lupelli e Antonio Porto, erano stati condannati a dicembre del 2018 dal Tribunale di Crotone ad un anno e sette mesi per aver sequestrato e causato lesioni a Paolo Bonazza. Secondo quanto ricostruito dall'accusa, i due agenti della Squadra Volanti della questura di Crotone avrebbero condotto l’uomo in una frazione limitrofa dopo averlo fermato per un controllo e lo avrebbero pestato. L'uomo andò in ospedale e ne uscì con un referto per lesioni guaribili in sei giorni, denunciò gli agenti che vennero indagati nel 2003 e rinviati a giudizio. Il terzo agente coinvolto, Massimo Geraci, era stato invece chiamato in causa da un altro uomo, Massimo Innaro, ora scomparso, che lo aveva accusato di averlo malmenato insieme agli stessi Porto e Lupelli, sempre in occasione di un arresto. Come ci spiega l'avvocato Francesco Verri, legale di Geraci, «in primo grado il giudice aveva dichiarato il non doversi procedere procedere per prescrizione nei confronti del poliziotto. Abbiamo appellato reclamando l’assoluzione. La stessa sentenza aveva riconosciuto che “non potesse certo farsi affidamento” sulla testimonianza della presunta vittima». Quando chiediamo all'avvocato come mai Innaro avrebbe inventato una storia simile ci dice: «ben due periti nominati dal Tribunale avevano dichiarato l’accusatore affetto da una gravissima malattia psichiatrica che gli impediva di ricostruire correttamente gli eventi. La stessa che ne aveva determinato l’espulsione dalla Polizia perché anche Innaro era stato un agente prima della comparsa di quei disturbi». Ma sul perché ci sia voluto così tanto tempo per concludere un giudizio, dei cui ritardi vengono spesso accusati gli avvocati,  Verri ci dice: «La Corte d’Appello ha fatto in fretta. Il processo davanti al Tribunale invece è cominciato nel 2005 ed è durato fino al 2018 passando per un’infinità di rinvii d’ufficio e per le mani di cinque giudici. Davanti all’ultimo, abbiamo acconsentito all’utilizzazione delle “vecchie” testimonianze pur di mettere fine a questa storia infinita. La sentenza però ci ha profondamente deluso. Ha definito “l’impianto accusatorio assai solido” ma ora è chiaro che avevamo ragione noi». Intanto le vite di queste tre agenti sono state fortemente compromesse da questa vicenda, come ci spiega Aldo Truncè, legale di Tommaso Lupelli (mentre Porto era difeso dagli avvocati Silvano Cavarretta e Eugenio Pini): «18 anni di attesa per avere riconosciuta la propria innocenza sono un’eternità. I poliziotti sono rimasti sulla graticola per più di metà della loro carriera che nel frattempo si è fermata». Gli elementi che hanno portato all'assoluzione degli agenti sono «le infinite contraddizioni nel racconto delle persone offese, le smentite provenienti da altri testimoni, la lacunosità delle indagini e, per quanto riguarda il “caso Innaro”, le nette conclusioni del perito che hanno escluso qualunque capacità dell’uomo di distinguere il falso dal vero». La morale di questa storia concludono Verri e Truncè è che «la procura e il giudice dell’udienza preliminare quindici anni fa hanno sbagliato la prognosi e il Tribunale ha valutato male le prove. Può succedere? Certo. Nel processo il contraddittorio rischiara con la sua luce potente la penombra in cui si svolgono le indagini, la difesa irrompe nel rapporto unilaterale del pubblico ministero con il gip, e i gradi di giudizio successivi al primo servono per correggere le sviste. Ma non si dica che errori del genere sono “fisiologici” perché parliamo di vite umane. Le statistiche pubblicate in questi giorni rivelano che ciò accade nel cinquanta per cento circa dei processi e questo è inconcepibile». 

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