Intenti persecutori al 41bis verso il nipote di Messina Denaro

 di Valentina Stella Il Dubbio 27 febbraio 2021

La vendetta di Stato consumata nei confronti di Raffaele Cutolo, lasciato morire da solo al 41 bis, ha riaperto la discussione sul carcere duro: è ancora necessario? E se sì, si trasforma spesso in una tortura, andando oltre la sua prerogativa che è semplicemente quella di isolare il detenuto dal contesto criminale?


Lasciamo ai giuristi il compito di rispondere a questa domanda. Noi, invece, vi raccontiamo la storia di Francesco Guttadauro, nipote del super boss latitante Matteo Messina Denaro. L’uomo, classe 1984, è stato condannato definitivamente nel 2016 a 16 anni di carcere per associazione di stampo mafioso. Attualmente sta scontando la sua pena in regime di 41 bis presso il carcere di Nuoro. Proprio il giorno in cui è morto Cutolo, il suo legale, l'avvocato Michele Capano, consigliere generale del Partito Radicale, ha discusso dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma il reclamo contro la proroga del 41 bis per Francesco Guttadauro, disposta dal ministero della Giustizia il 7 gennaio 2020. Come è avvenuto con Cutolo, l'udienza è stata calendarizzata oltre un anno dopo dal reclamo difensivo: eppure l’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell'eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni.


Secondo l'avvocato Capano, «nei confronti di Guttadauro, come ho cercato di illustrare al Tribunale di Sorveglianza di Roma, il ministero della Giustizia e l'amministrazione penitenziaria hanno da tempo assunto un atteggiamento persecutorio che nulla ha a che vedere con le questioni di sicurezza e con le finalità che presiedono alla stessa applicazione del “41 bis”. Ho posto all’attenzione dei giudici come la condotta del Dap evidenzi l’intento di “potenziare”, in modo indebito, la portata afflittiva della pena in esecuzione. È emblematico e decisivo, a riguardo, il caso della fede nuziale: che per anni non è stato consentito al detenuto di indossare».


E infatti ha dell'incredibile questo episodio relativo alla fede nuziale. Ve lo riassumiamo così: nel 2018 Guttadauro era recluso nel carcere di Sassari, la cui direzione decide che non può tenere la fede per vari motivi: tutti gli oggetti di valore vengono ritirati appena si entra in carcere e inoltre quell'anello con un brillantino incastonato sarebbe potuto essere


un oggetto attraverso cui Francesco Guttadauro avrebbe potuto manifestare superiorità nella sezione detentiva di appartenenza.


A seguito di reclamo il magistrato di Sorveglianza di Sassari, Riccardo De Vito, accogliendo, motiva così: «il diritto a tenere la fede nuziale con sé trova base legale nell'articolo 15 dell'Ordinamento penitenziario e nel'articolo 28 del medesimo Ordinamento, dedicato alla particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie. Più a monte si colloca l'articolo 29 della Costituzione, che costituisce norma intesa alla tutela della famiglia e del matrimonio anche perché il detenuto trascorre 22 ore in camera detentiva da solo. Proprio in tali momenti di solitudine il valore del possesso dell’oggetto emerge in tutta la sua dimensione morale ed affettiva, non essendo possibile alcun ostentamento».


Intanto il detenuto viene trasferito nel carcere romano di Rebibbia, ma comunque la fede nuziale non gli viene restituita e l'avvocato è costretto a chiedere un giudizio di ottemperanza: «Secondo un costume consueto, di inquietante portata eversiva, anche quando la magistratura di sorveglianza accoglie i reclami dei detenuti si registrano una resistenza pervicace e, talora, escamotage truffaldini come lo spostamento ritorsivo da un istituto all’altro. Si è costretti così, con l’ulteriore perdita di tempo ( che è il tempo dell’esercizio negato di diritti), quale ulteriore tappa della “via crucis”, a ricorrere a giudizi di ottemperanza per consentire che avvenga l’effettiva esecuzione di quanto statuito in sede giurisdizionale».


Ma la teoria di “punture di spillo” persecutorie nei confronti di Guttadauro Francesco, spiega l’avvocato Capano, non finisce qui: «L’Amministrazione penitenziaria ha impedito al detenuto di godere del suo diritto alle due ore d’aria al giorno riducendola in maniera del tutto arbitraria e pretestuosa ad una sola, con grave pregiudizio alla socialità del Guttadauro». A tal proposito il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha riconosciuto l’illegittimità della decurtazione dell’ora d’aria riconoscendo che le ore d’aria, esclusa quella della socialità, erano due al giorno per un totale giornaliero di tre ore. In questo caso il Dap e il ministero della Giustizia si sono impegnati in un ricorso in Cassazione per ribaltare, senza successo, il provvedimento della magistratura di sorveglianza; solo dopo la sentenza del 2018 della I sezione della Cassazione è stata scritta la parola fine su tale ulteriore e indebita, privazione.


Stesso discorso per l’uso


del televisore nel corso della 24 ore giornaliere, nonostante il magistrato di Sorveglianza di Sassari avesse accolto il reclamo della difesa scrivendo che quel divieto pregiudicava «il diritto all’informazione di ogni detenuto e il diritto a quel poco di trattamento residuo posto in essere nei confronti dei detenuti costretti in camera singola 22 ore su 24». La morale sottesa al racconto è per l'avvocato Capano che «a fronte delle già rilevantissime limitazioni di diritti fondamentali connesse al regime del carcere duro, si succedono ulteriori restrizioni motivate, con evidenza solare, da puri intenti persecutori, che in uno Stato di diritto non dovrebbero avere cittadinanza. All’udienza del 18 febbraio, i cui esiti non sono giunti ma su cui non ci facciamo troppe illusioni, ho segnalato come il ministero e il Dap avessero “esibito” lo stesso ' profilo' del caso di Raffaele Cutolo. La presidente Cimmino mi ha chiesto se mi rendessi conto di ciò che affermavo: le ho risposto che mi assumevo volentieri la responsabilità delle mie dichiarazioni. Mi chiedo se nella nostra povera Repubblica eguale assunzione di responsabilità ci sia per atti che compiuti come sono “in nome del popolo italiano” manifestano troppo spesso un disprezzo per le norme poste a salvaguardia delle prerogative fondamentali della persona, e quindi un disprezzo di quello stesso “popolo italiano” da cui promanano» .

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