Intervista a Fabio Gianfilippi

 di Angela Stella Il Riformista 9 settembre 2020


Stampa e fonti istituzionali vogliono far passare il messaggio che ci sarebbe una bufera sul Tribunale di Sorveglianza di Sassari: ad aprile il caso Zagaria, ora quello dell'evasione di Giuseppe Mastini. Il Fatto Quotidiano ha titolato ieri "Lo Zingaro evade: i soliti giudici di Sassari", lo stesso pensiero di qualcuno a via Arenula. Perché semplificare in questo modo situazioni che sono diverse e complesse? Johnny lo Zingaro non è tornato dopo un permesso premio. A Pasquale Zagaria invece è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute e sul caso pende un ricorso in Corte Costituzionale. Pochi giorni fa era stata Repubblica a buttarla in caciara con la questione dei 'bossi e mezzi boss'. Cerchiamo invece oggi di fare una seria riflessione con il dottor Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto: anche lui ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale sul decreto-legge 10 maggio 2020 n. 29 relativo alle scarcerazioni durante l'emergenza covid. 



Dottor Gianfilippi il non ritorno in carcere di Johnny Lo Zingaro ha riacceso la polemica sui magistrati di sorveglianza. Che ne pensa di questa polemica?

 

La magistratura di sorveglianza svolge un ruolo particolarmente delicato e, come quasi sempre accade a chi opera nel mondo penitenziario, nascosto all’opinione pubblica. Viene riscoperto dalla stampa soprattutto a fronte di polemiche che, per toni e argomenti, spesso impediscono di decodificare la complessità dei temi, dei diritti sottesi e delle valutazioni conformi a Costituzione, che siamo chiamati quotidianamente a operare. Anche nel recente caso di evasione da un permesso premio, di cui conosco solo elementi giornalistici, viene portato alla ribalta un caso, sicuramente grave, in cui il beneficio concesso è stato utilizzato per sottrarsi all’esecuzione della pena. Non ho però letto una sottolineatura sufficiente sui numeri elevatissimi di permessi premio che annualmente si svolgono con esiti positivi. A questo riguardo la Corte Costituzionale ha più volte sottolineato la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio quale momento di sperimentazione preliminare alla concessione delle misure alternative, in grado di fornirci elementi essenziali circa la capacità di gestione responsabile delle prescrizioni imposte, e quindi in ordine al pericolo di recidiva nel delitto. Neppure per una persona già evasa in passato questo cammino può dirsi assolutamente precluso a tempo indeterminato perché, in una lettura costituzionalmente orientata delle norme (sent. 189/2010), è necessaria una valutazione in concreto approfondita e rigorosa della personalità del condannato e delle sue condotte. Nonostante tutto ciò, il rischio di un esito negativo è tenuto in considerazione dal legislatore, che però lo ritiene, giustamente, compensato dai vantaggi che ci fa ottenere in termini di sperimentazione. In questi anni sul campo ho potuto tante volte apprezzare il valore centrale dei permessi premio, anche per approfondire i percorsi di riflessione critica sui reati commessi e per rinsaldare i legami familiari, entrambi elementi che giocano un ruolo decisivo nell’ abbattere il pericolo di recidiva.

 

Bonafede ha inviato gli ispettori a Sassari. Non sarebbe giusto anche mandarli per capire come mai in carcere ci sono tanti suicidi?

 

Certo. Il mondo penitenziario affronta endemiche criticità, tra le quali il sovraffollamento e una carenza non sporadica di assistenza sanitaria adeguata, specialmente se si parla di salute psichica. È dunque necessario che l’attenzione dell’amministrazione resti sempre alta e ci si interroghi a fondo sul contesto in cui il disagio raggiunge livelli così drammatici. Un maggior numero di operatori penitenziari: di educatori, di psicologi, ove serva di psichiatri, potrebbero in tal senso costituire una risorsa fondamentale per fare la differenza. Ove i percorsi di risocializzazione funzionano, è perché c’è una osservazione corale sulla persona, anche grazie al contributo della polizia penitenziaria, che ogni giorno condivide la quotidianità con le persone detenute. Si possono così intercettare, prima che avvengano, molte criticità e forse anche prevenire fatti gravi come l’evasione di cui si parla in questi giorni.

 

Si tende molto a semplificare le questioni e puntare il dito contro la magistratura di sorveglianza, ormai da troppi mesi. Ma probabilmente nessuno conosce bene il vostro lavoro, forse neanche al Ministero.

 

È un lavoro che ci pone ogni giorno di fronte a scelte difficili. Si parte dalle responsabilità accertate con la commissione del reato, per poi muovere da quella fotografia all’analisi di ciò che la persona nel tempo è diventata. Certo, è più facile parlarne quando si possono mettere in evidenza gli ottimi risultati che, chi fa il mio mestiere, ha nei suoi ricordi: percorsi di riscatto e di restituzione alla società di persone in grado di dare un proprio positivo contributo. Bisogna avere però il coraggio di ricordarlo anche quando qualcosa non va, perché la ricerca di un responsabile, in chi ha concesso il permesso, non è in grado di rendere la complessità di un giudizio che, in ultima analisi, chiede al detenuto di assumersi una responsabilità e che affronta, con prudenza, scienza e attraverso il supporto di molte professionalità, anche il rischio che qualcosa vada storto, con la prospettiva di un risultato finale più utile per la sicurezza di tutti.

 

Qual è il suo pensiero sulla polemica sollevata da Repubblica sui 'boss' ancora fuori? Non si tratta di una narrazione propagandistica e priva di approfondimento?

 

Non conosco le posizioni di tutti i detenuti. Posso solo ribadire che in questi mesi la magistratura di sorveglianza ha continuato a fare il suo dovere. Ciò significa innanzitutto vigilare affinché i diritti fondamentali, tra i quali la salute, siano rispettati, e lo siano anche per i detenuti più pericolosi. Naturalmente, per questi ultimi, la detenzione domiciliare per motivi di salute avviene quando ogni altra strada non è più percorribile, senza che per difetto di cure sia travolta la dignità della persona. Proprio il riferimento alla dignità imporrebbe di non trattare queste situazioni facendo riferimento a dei numeri, ma leggendoli caso per caso.

 

Anche noi avremmo voluto conoscere le posizioni di tutti i detenuti rimasti fuori, come ci dice il dottor Gianfilippi nell'ultima risposta. Per non cedere alla retorica, per scrivere consapevolmente. Non ci interessavano i loro nomi: avremmo solo voluto fare una mini inchiesta per sapere quando sarebbe giunto il loro fine pena, per quali reati sono detenuti e quando e perché si è aperto il fascicolo con la richiesta di detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto questi dati al Ministero della Giustizia ma ci hanno detto che è un lavoro immane per loro. Per la pubblica opinione e per scongiurare una narrazione populista, crediamo invece che varrebbe la pena farlo. 


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