Giustizia non è vendetta ma rispetto delle regole dello Stato di Diritto

Valentina Stella Rivista Penale Diritto e Procedura 13 marzo 2023


Cosa hanno in comune, ad esempio, i processi Ciontoli, Viareggio, Mottola, Rigopiano? Che se un giudice si azzarda a derubricare, prescrivere o assolvere, contro di lui si scatenano le aggressioni verbali da parte dei parenti delle vittime e di qualche politico.

Ripercorriamo brevemente queste vicende. Per la morte di Marco Vannini, nel primo processo di appello, la Corte derubricò da omicidio volontario a colpa cosciente il reato con cui venne condannato Antonio Ciontoli.  La Cassazione, nel caso della strage di Viareggio, dichiarò l’estinzione di alcuni reati per intervenuta prescrizione. Qualche mese fa la Corte di Assise di Cassino ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. A fine febbraio di quest’anno un G.U.P. del Tribunale di Pescara ha assolto 25 dei 30 imputati e comminato altre cinque lievi condanne: era il 18 gennaio 2017 e una slavina si abbattè sull’Albergo Rigopiano Gran Sasso Resort. Una tragedia immensa in cui persero la vita 29 persone. Alla lettura della sentenza in aula si è scatenato un putiferio: abbiamo sentito i parenti e gli amici delle vittime urlare, rivolti al G.U.P., “bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio. E il magistrato è stato costretto a lasciare l’aula scortato. La stessa epifania di dolore e rabbia l’abbiamo vista manifestarsi negli altri casi. Tutto questo, ci chiediamo, è normale in un’aula di giustizia? Contemporaneamente, in questo ultimo caso, è arrivato anche un tweet del Ministro Matteo Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è ‘giustizia’, questa è una vergogna”. Ebbe ragione il professore Glauco Giostra quando, durante un convegno, fece la seguente riflessione: “Avete fatto caso che ‘giustizia è fatta’ è esclamazione riservata soltanto alle sentenze di condanna?”.  Perché dunque prevale questo sentimento?

Molto spesso il frutto avvelenato di questa visione distorta del processo è rappresentato dalle aspettative create dalle procure nei familiari delle vittime, aspettative che poi si trasformano in “verità assoluta” sulla gran parte dei giornali e in televisione. Se poi quelle aspettative non trovano alcun riconoscimento in una sentenza, ecco lo scandalo, con il giudice trasformato in bersaglio sul quale scagliarsi perché giustizia deve significare solo condanna. Se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole. Altrimenti il sistema giustizia ha fallito. Un’idea, questa – come ha scritto il Presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza nella sua lettera aperta al Ministro Salvini -, “spaventosa perché presuppone che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, la condanna il suo trionfo e che il buon giudice sia colui che assevera incondizionatamente l’ipotesi d’accusa”.

Di chi sono le responsabilità di questa distorta visione del processo penale?

Innanzitutto di alcuni magistrati requirenti troppo zelanti che amano dare eccessiva enfasi alle loro indagini, dentro e fuori l’Aula. Pensiamo solo al fatto che nel caso di Rigopiano, il 24 novembre scorso, dopo oltre due anni di processo, per la prima volta furono fatti tutti i nomi delle vittime e, addirittura, mostrati anche i loro volti. È stato il sostituto procuratore durante la sua requisitoria a colmare la lacuna, causata dalla formula processuale del rito abbreviato, durante il quale si saltano alcuni passaggi e non viene ricostruita l’intera vicenda, lasciandola quindi alle conclusioni dell’accusa. “Il dolore che tutti hanno provato di fronte a questa tragedia è stato il motore di questo ufficio, e a questo dolore vogliamo dare una risposta”: ha detto la magistrata. Pur nel massimo rispetto verso la sofferenza indicibile di chi ha perso una madre, un figlio, una sorella ma è davvero questa la ragione che deve spingere un pubblico ministero a chiedere delle condanne? Tra i numerosi parenti delle 29 vittime c’è stata commozione durante quel momento e anche qualche lacrima, “è come se ci fossimo riappropriati del processo, ci ha molto colpito il gesto non scontato del pm, ci ha fatto piacere in qualche modo”, hanno detto alcuni familiari.

Tuttavia i co-responsabili siamo noi giornalisti che raccontiamo le vicende giudiziarie la maggior parte delle volte sposando solo le tesi dell’accusa. Una ricerca condotta qualche anno fa dall’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione Camere Penali, in collaborazione con il dipartimento di statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato, analizzando gli articoli di cronaca giudiziaria, “acquiescenza pregiudiziale alle tesi dell’accusa, inadeguato distacco dal ‘potere’ giudiziario, a volte ideologicamente – quanto acriticamente – considerato un ‘contropotere’ del male assoluto, ‘la politica’”.  Il contenuto degli articoli, poi, “è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte del contenuto è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione”. Inoltre, oltre il 60% delle notizie riguardava l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza.

Tornando all’oggi, quel gesto del pm di Rigopiano e la conseguente reazione solidale di chi era in aula quel giorno hanno avuto ampia eco sui giornali e in tv. Ma al contraddittorio tra le parti è stata data la stessa risonanza mediatica? Non in questo caso, e no negli altri casi sopra citati. Quello che conta è mandare in onda la pornografia del dolore, oramai divenuto l’unico modo per fare cronaca giudiziaria in questo Paese. L’informazione giudiziaria è parziale, appiattita sulle tesi dei pubblici ministeri e manca della partecipazione al pubblico della fase principale dell’iter giudiziario: il processo, durante il quale, grazie al contraddittorio delle parti, emerge la prova. Chi un po’ frequenta i palazzi di giustizia sa benissimo che la calca dei giornalisti c’è solo casomai il primo giorno del processo, o tutt’al più quando depone l’imputato e il giorno della sentenza. Ma come si può spiegare all’opinione pubblica una sentenza se non si è seguito il dibattimento? Più che scrivere di esami e controesami, la stampa sente maggiormente il bisogno, ad esempio, di riprendere gli imputati in aula, carpire emozioni, gesti, offrire al pubblico la loro presenza nelle gabbie.

A dividersi la responsabilità con magistrati star e giornalisti embedded delle Procure ci sono anche politici e rappresentanti istituzionali che senza conoscere minimamente gli atti di un processo lanciano strali contro i magistrati che fanno solo il loro lavoro, prendendo a volte decisioni scomode e coraggiose. Il paradosso è che proprio queste figure, attraverso questi giudizi tranchant, negano le regole di quello Stato di Diritto che proprio loro dovrebbero rappresentare in quel momento.

Chi paga il conto di tutto questo? Appunto quel povero G.U.P.  di Pescara e altri giudici come lui. Più è alta la mediaticizzazione di un processo nella sua fase di indagine, più viene cristallizzata sui media la versione dell’Accusa che si trasforma erroneamente in verità assoluta, più le macchine comunicative di certi politici cavalcano l’onda populista e più il magistrato che decide che ha ragione la difesa viene crocifisso.

Come ha detto il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, benché sconfitto nel processo: “La sentenza merita rispetto, così come rispetto è dovuto al giudice ed alla funzione dallo stesso esercitata, fermo restando il diritto di critica. Le aggressioni verbali in aula dopo la lettura della sentenza non possono essere tollerate, così come non è accettabile il dileggio del magistrato da chiunque posto in essere”. Per il procuratore, “il giudice, nella solitudine della camera di consiglio, decide in piena indipendenza, senza dover assecondare le aspettative della opinione pubblica, attenendosi solo alla legge ed alle risultanze processuali”.

Sotteso alla insofferenza verso le sentenze di assoluzione c’è uno dei tre grandi mali che affligge il nostro sistema giudiziario. Insieme a giustizialismo e panpenalismo troviamo il vittimo-centrismo. Lo descrive bene Daniele Giglioli in ‘Critica della Vittima’ (figure nottetempo): “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato”.

 “Abbiamo cominciato a soffrirne molto – mi disse il professor Ennio Amodio in una intervista al Dubbio –  quando si è sviluppata la politica penale del Movimento Cinque Stelle e della Lega. Nel mio libro ‘A furor di popolo’ ho cercato di individuare la trama di questo nuovo pensiero populista che abbandona i principi dell’Illuminismo e predica una penalità sempre più severa, che sgorga appunto dalla sete di vendetta delle vittime e scavalca il potere dei giudici. Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che arriva dalle vittime. Quindi si cerca di circoscrivere l’intervento discrezionale del giudice, considerandolo come lassista, un atteggiamento che un sistema non si dovrebbe permettere, in quanto la sanzione penale deve essere sempre dura e inflessibile”. Si tratta di una componente quasi connaturata alla fisionomia e al sentire degli individui. Non a caso l’antecedente storico del diritto è la vendetta.

È giunto il momento di lavorare per un cambiamento culturale, di cui dobbiamo farci carico anche noi giornalisti nello spiegare esattamente cosa sia il processo penale, ossia un insieme di regole, a volte incomprensibili, ma che reggono laicamente il nostro sistema giudiziario.

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