Intervista a Ivan Scalfarotto

 Valentina Stella Il Dubbio 10 dicembre 2022

Dal 29 novembre è in libreria "La versione di Ivan - Storia di un resistente negli anni del populismo" scritto per la Nave di Teseo dal senatore di Azione- Italia Ivan Scalfarotto, vicepresidente della Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari e membro della Commissione giustizia a Palazzo Madama.

Lei scrive: "In Italia, essere gay o lesbica è evidentemente ancora molto complicato". Perché?

Banalmente perché siamo uno dei pochissimi Paesi occidentali nei quali la piena parità tra cittadini etero e gay non è ancora stata sancita dalla legge. Giovedì scorso il Congresso degli USA ha sancito per legge il matrimonio ugualitario in tutti i 50 Stati dell’Unione con il “Marriage Respect Act”. In Italia di matrimonio ugualitario non si parla: passa per una bizzarria, ma è da anni legge in tutti i Paesi, amici e alleati, con i quali normalmente ci confrontiamo.

Come mai in politica sono pochissimi quelli che fanno coming out?  Si preferisce vivere nell'ipocrisia?

Le persone gay e lesbiche, al contrario di quasi tutte le altre minoranze, possono scegliere se rivelarsi oppure no. Prima di prendere la decisione di fare “coming out” si tasta il terreno, si valuta quanto il contesto destinato a riceverci sia inclusivo, ed evidentemente l’esito di questi test - fatti all’interno dei partiti e dei gruppi parlamentari - è spesso negativo. Penso sempre al M5S, che in tre elezioni politiche ha eletto centinaia di giovani in parlamento: di deputati e senatori grillini che abbiano fatto coming out non si ha notizia, a parte Vincenzo Spadafora che - come racconto nel mio libro - fece coming out solo dopo aver lasciato il suo incarico di Sottosegretario con delega alle pari opportunità. Aver avuto la più alta autorità dello Stato responsabile delle pari opportunità che non si fidava nemmeno per sé stesso delle pari opportunità che avrebbe dovuto garantire agli altri, è stato un paradosso che poteva accadere solo in Italia. 

Lei scrive: "Alla fondazione del PD, l’unione tra i cattolici della Margherita e i laburisti dei DS, le due anime del partito desideravano ardentemente dimostrare di essere in grado di poter trovare un punto di sintesi su tutto. Ma c’è un tema sul quale le due culture hanno sempre fatto (e fanno tuttora) una gran fatica a trovare una sintesi: quello dei diritti civili e delle libertà individuali". Non c'è soluzione a questo?

Non sono più nel PD, e quindi valuto dall’esterno, ma non mi pare: c’è un’anima cattolica nel PD che è molto forte e anche un pezzo della sinistra PD che da sempre si è occupato di mantenere un rapporto forte con la CEI. La differenza rispetto al passato è che con la Segreteria Letta si è provato a dipingere un partito blindato su questi temi, con il solo risultato di costringere i contrari all’agenda dei diritti civili al silenzio e a un uso “accorto” del voto segreto, come è successo con il ddl Zan. Hanno poi cercato di dare la colpa del naufragio della legge contro l’omotransfobia a Italia Viva - cioè al partito di Matteo Renzi, il padre delle Unioni civili! - ma l’aritmetica è stata sufficiente a smentirli.

Come vede da un lato e cosa auspica dall'altro per il futuro del Pd?

Non ho auspici, mancherebbe: ho lasciato il PD da oltre tre anni e non ho mai avuto il minimo rimpianto. Guardo ai destini del PD con il rispetto che si deve a un’altra forza politica, ma sono uscito da quella casa per motivi politicamente molto seri e senza mai guardarmi indietro, come racconto nel mio libro. Se mi chiede quello che vedo, da osservatore esterno, è un partito che il 5 novembre scorso non era a casa propria né nella manifestazione pro-Ucraina di Milano, organizzata da noi, né in quella cosiddetta pacifista di Roma, in cui Conte furoreggiava e Letta veniva fischiato. Penso che sia oggettivamente un problema, e credo che il loro congresso dovrà innanzi tutto sciogliere questo nodo: mi pare ne vada della loro rilevanza nella vita politica italiana.

Lei rivolge parole molto dure nei confronti del M5S: "hanno inoculato veleno nella nostra società", "hanno messo in atto un pianificato attacco al prestigio delle istituzioni della storia repubblicana". Eppure tanti italiani li hanno votati nel 2018 e sono tornati a dare fiducia a Conte. Come se lo spiega?

La ragione è che il populismo si è insinuato nelle nostre istituzioni, ma anche nella comunicazione, nel dibattito pubblico. L’ipersemplificazione dei messaggi funziona. Il trasformismo viene perdonato. Basti pensare che oggi il leader del governo gialloverde, quello che ha firmato i decreti Salvini e che ha rivendicato orgogliosamente il sovranismo e il populismo come caratteristiche identitarie del suo stesso governo, è considerato il campione della sinistra in Italia. E ciò che è più grave è che questo ruolo di “punto di riferimento della sinistra” gli sia stato inizialmente attribuito direttamente dall’allora segretario del PD.

Lei ha apprezzato martedì l'illustrazione delle linee programmatiche di Nordio. E ha aggiunto: "Ma ho l’impressione che la sua vita non sarà così facile all’interno di questo governo".

Nordio ha parlato in Parlamento di un sistema penale che limita al massimo la perdita della libertà personale e non abusa delle intercettazioni. Il Governo, invece, come prima cosa ha introdotto un nuovo reato, quello sui “rave party”, di cui non si sentiva assolutamente il bisogno e lo ha caricato di una sanzione penale pesantissima, fino a sei anni di reclusione, con ciò ampliando anche l’uso delle intercettazioni. Finora, il Ministro ha detto cose impeccabili, ma il suo governo ha fatto precisamente il contrario. L’augurio è si lasci lavorare il Ministro Nordio sulla riforma della giustizia: in tal caso, noi ci saremo.

Secondo lei il centrodestra, anche con l'appoggio del Terzo polo, potrà portare a casa nei prossimi cinque anni riforme costituzionali della giustizia, come la separazione delle carriere?

Me lo auguro di cuore. Ma quando Meloni dice che lei è “garantista nel processo e giustizialista nell’esecuzione della pena” rivela la sua antica vocazione giustizialista e “manettara”. Nordio parla di presunzione di innocenza, di parità tra accusa e difesa, di funzione riabilitativa della pena, di diritto alla privacy dei cittadini. Tutti valori scolpiti nella nostra Costituzione, noi non possiamo che auspicare che si realizzino: ma che il governo guidato da FdI, quello che ha appena depositato con l’On. Cirielli un ddl che vuole «limitare la finalità rieducativa» della pena, diventi improvvisamente garantista mi pare veramente improbabile.

Quali sono al momento, secondo lei, i rapporti tra politica e magistratura?

Nella stragrande parte dei casi sono assolutamente corretti. Dopodiché a nessuno sfugge che esiste un fenomeno correntizio che premia i magistrati sulla base dell’appartenenza e non del merito, così come esiste una totale irresponsabilità per gli atti compiuti dai magistrati di cui non gode nessun’altra professione nel nostro Paese. Io sono un fermissimo sostenitore dell’autonomia della magistratura dalla politica, ma credo che sia indispensabile anche il reciproco. Se i nostri Costituenti hanno previsto un organo di autogoverno dei magistrati da un lato e una serie di garanzie per i parlamentari dall’altro, non è certo stato un caso. Diciamo che tutte le guarentigie del Parlamento sono state via via smontate e oggi la politica - che, non dimentichiamolo, è l’espressione democratica della volontà popolare - è certamente assai più debole della magistratura. In termini di equilibrio tra i poteri, non è certamente un bene. 

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