«Un database europeo multidisciplinare per studiare il Covid»
di Valentina Stella Il Dubbio 31 ottobre 2020
Il Presidente dell'Accademia Nazionale dei
Lincei, il fisico di fama internazionale Giorgio Parisi, la scorsa settimana ha
lanciato un allarme dalle pagine dell'Huffington
Post chiedendo misure drastiche per fermare l'avanzamento dell'epidemia di
covid 19. La politica sembra averlo ascoltato. Ne abbiamo discusso proprio con
lui in questa lunga intervista in cui rivendica l'importanza della fisica e della
matematica per capire il coronavirus e chiede meno litigi in tv tra i virologi.
Per chi ne volesse sapere di più, sulla homepage dell'Accademia trova una
sezione dedicata alla pandemia in cui sono raccolti i contributi delle
commissioni lincee e dei soci sul tema COVID-19, insieme a documenti di altre
Accademie e Istituzioni internazionali.
Presidente Parisi, il suo allarme è stato raccolto.
Penso che il Governo avrebbe preso questa
decisione anche senza il mio articolo e l'appello successivo di cento tra scienziati e giuristi.
Certo, abbiamo contribuito a creare delle condizioni favorevoli per una giusta
presa di posizione: il Governo non solo deve prendere delle decisioni giuste ma
deve avere anche un clima di consenso intorno, senza il quale diventa difficile
farle rispettare. E noi abbiamo contribuito a crearlo.
Come è
possibile bilanciare in questo momento il diritto alla salute e la necessità di
non fermare una parte del nostro sistema produttivo?
I sacrifici devono essere distribuiti: i profitti di industrie come Amazon
sono alle stelle mentre i commercianti al dettaglio vanno verso il disastro. Se
si vuole ottenere un consenso anche dalle categorie più colpite bisogna
prevedere delle reti di sicurezza. Poi non siamo stati aiutati a causa di una
certa narrazione: qualcuno, come Zangrillo e Tarro, hanno detto che il covid
era sparito, per non parlare della Gismondo che lo ha declassato a banale
influenza, alcuni politici hanno poi soffiato sul fuoco, c'è chi ha parlato di
'dittatura sanitaria'. Tutto questo non ha di certo aiutato a dialogare con i
settori economici.
Lei ha
richiamato la necessità di un database per fronteggiare meglio la pandemia.
Cosa non funziona nell'attuale raccolta di informazioni e cosa invece si
dovrebbe fare in tal senso?
Faccio subito un esempio: a me piacerebbe
sapere per tutti coloro che hanno contratto il Covid che lavoro svolgono, con
quali mezzi raggiungono il posto di lavoro, se frequentano le palestre, quante
volte al mese vanno al ristorante, se
hanno figli che vanno a scuola, qual è il tenore di vita. Si parla
spesso di big data, ma non li stiamo usando: se conoscessimo tutte le
informazioni relative alle abitudini di vita di quelle persone potremmo ad
esempio valutare se l'aumento dei contagi avviene soprattutto tra coloro che
prendono i mezzi pubblici e agire di conseguenza. Poi esiste il problema del
tracciamento. In Germania la Merkel ha dichiarato chiaramente che il
tracciamento non funziona, fatta eccezione per il 23% dei casi in cui sappiamo
in che occasione è avvenuto il contagio. Se il contagio avviene in autobus o in qualunque spazio aperto al pubblico
è quasi impossibile ricostruire il luogo. Non
credo che in Italia stiamo meglio, considerato che i tedeschi sono tradizionalmente meglio organizzati di
noi. Quindi occorre assolutamente prendere un'altra direzione.
Quale?
Due giorni fa ho avuto una discussione con
alcuni colleghi tedeschi e anche loro sono d'accordo nel voler creare un
database non solo nazionale ma addirittura europeo. Al momento ci troviamo in
una babele incomprensibile. Ogni medico in Italia classifica in maniera diversa
lo stato del paziente. Non esiste una
normativa che dica, come avviene in Cina, che se il paziente ha questo
grado di saturazione dell'ossigeno allora è grave, se ha quest'altro allora è critico,
se ha questi sintomi è lieve. Ognuno fa la diagnosi a modo suo e i confronti
tra le regioni, ad esempio, diventano estremamente difficili.
Lei
parla di big data. Ed infatti la pandemia da COVID-19 è sotto la lente di
ingrandimento di varie discipline. L'impressione è qualcuna snobbi le altre. Di
qualche giorno fa è la lettera degli studenti della Sapienza che rivendicano il
ruolo della fisica nella conoscenza del fenomeno pandemico.
La multidisciplinarietà è certamente
importante: l'epidemiologia, se vogliamo, è la vera disciplina che si occupa
dello studio della curva epidemica, ed è intrinsecamente multidisciplinare
perché ha bisogno di avere dei dati e di poterli analizzare su larga scala, e
questo è un compito svolto spesso dai fisici e dai matematici che elaborano equazioni che descrivono
lo sviluppo dell'epidemia, grazie all'apporto fornito dai clinici e dai
virologi. Per essere pratici, il numero dei casi che vengono registrati
quotidianamente in Italia dipende da due fattori: il numero totale dei
contagiati e la capacità del Sistema sanitario nazionale e della Protezione
civile di identificare gli ammalati. Ad esempio a Varese si erano illusi che la
situazione stesse migliorando, ma poi il giorno dopo è arrivato il numero
esatto dei contagiati che non era arrivato il giorno prima, a causa di un
intoppo nella comunicazione dei dati. L'analista deve tener conto anche di
queste circostanze. Poi le voglio raccontare una cosa che mi ha innervosito
molto.
Prego
In Cina, credo a metà marzo, hanno deciso di
fare una riclassificazione dei dati: nonostante le radiografie e le tac
evidenziassero in molti pazienti le tipiche lesioni da Covid, questi non furono
inseriti nelle statistiche dei contagiati perché non c'erano abbastanza test molecolari
per confermarlo. Poi è arrivata una disposizione
del Governo in cui si chiedeva di inserire nelle statistiche anche quei
pazienti. E così fu fatto, aggiungendo
anche coloro che erano morti con un
forte sospetto diagnostico senza aver fatto il tampone. Il risultato fu che
tutti i giornali italiani titolarono con toni molti allarmistici dicendo che in
Cina in un giorno i morti erano raddoppiati o addirittura quintuplicati. Poi il
giorno successivo, titoli piccoli che dicevano che in realtà non era così.
Questo non capita solo ai giornalisti, ma anche a tutti quelli che fanno
analisi dei dati senza conoscere il contesto e l'origine di quei dati. Nel
mondo, secondo le statistiche, di
domenica muoiono meno persone di Covid: è evidente che non è un virus
settimanale, ma semplicemente il sistema di tracciamento non lavora a regime come gli altri giorni. L'unico
modo quindi per avere un approccio più realistico è quello di fare le medie
settimanali.
A
proposito di stampa, secondo Lei ha
ragione chi sostiene che la sovraesposizione mediatica di alcuni scienziati non
abbia fatto bene alla immagine della scienza?
In generale, la sovraesposizione mediatica
non fa mai bene. Il problema è che normalmente nella scienza quando c'è un
fenomeno nuovo servono anni, decenni di assestamento per poterlo capire e
assorbirlo. La scienza procede per comunicazioni scritte su cui la comunità
scientifica può riflettere. È chiaro che siamo in
una situazione emergenziale in cui si sente il bisogno di dare delle risposte
veloci però questo non può significare dare informazioni sbagliate in nome
dello share. Il mondo della comunicazione è interessato agli ascolti e un
litigio tra virologi in televisione aiuta lo scopo. Invece, a parer mio ad
esempio, due virologi che stanno per intervenire in una trasmissione dovrebbero
prima incontrarsi fuori dai riflettori per un'ora per capirsi e per portare poi
al pubblico un messaggio pacato, pur nella divergenza delle opinioni.
Forse
se qualcuno degli esperti qualche volta avesse detto 'non lo so' sarebbe stato
meglio.
Sì certo. Infatti la differenza che c'è tra
un esperto e uno pseudo esperto è che il primo sa quello che non sa, il secondo
pensa di sapere tutto. Ci sono quelli che dicono 'i contagi aumentano per il
calo della temperatura', altri 'è colpa della riapertura delle scuole', io
posso limitarmi a dire 'probabilmente': ci sono degli elementi più indiziati,
altri meno. In una situazione in cui molto non è sotto controllo bisogna avere
l'onestà di dire 'non so'. Se uno deve attraversare una foresta e si trova
davanti due sentieri e ha paura del leone, valuta gli indizi disponibili e sceglie il sentiero che gli pare più
sicuro senza avere nessuna certezza.
Sappiamo bene che quando un processo è indiziario, le circostanze possono
essere valutate in maniera differente. La
prova nella scienza non si raggiunge subito ma tramite un lungo e serrato confronto tra gli scienziati.
A tal
proposito, il 19 settembre la rivista The
Lancet ha pubblicato un articolo dal titolo "COVID-19: a stress test for trust in science". Tra l'altro
leggiamo che "la revisione tra pari rimane essenziale per il processo di
pubblicazione scientifica. Lega autori, editori, recensori e lettori insieme, e
aiuta a costruire la fiducia tra di loro". Qual è il suo parere su questo?
Le riviste mediche hanno pubblicato molte
volte delle grandi schifezze. L'impressione che ho è che per la fretta di
pubblicare, sia da parte degli autori sia da parte delle riviste, si sia aperta
qualche falla nel sistema. Se una rivista pubblica, faccio un esempio, un
articolo sui millepiedi anche se c'è qualcosa di sbagliato se ne accorgono in
pochi; ma se invece si pubblica un
lavoro sulle cure di una malattia di moda questo ribalza ovunque, la gente lo legge, si modificano
anche i comportamenti, e la rivista è costretta a ritirarlo dopo che 50
scienziati hanno inviato una lettera di protesta. Ed ecco che la falla viene a
galla sotto gli occhi di tutti.
Nel
1890 il re Umberto I firmava la nomina a senatore del Regno di Giulio
Bizzozero, professore di patologia all'Università di Torino. Guardando i nomi
degli scienziati che nell'Italia liberale furono membri del Senato, si rimane sorpresi
dal fatto che nei 25 anni dopo la nomina di Bizzozero furono nominati senatori
a vita premi nobel come Golgi e Marconi, la medaglia Darwin della Royal Society
Grassi, i matematici Beltrami e Volterra, il fisico Pacinotti, etc. Al
contrario nei quasi 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, i
senatori a vita provenienti dal mondo della scienza sono stati solo 4: Castelnuovo,
Montalcini, Cattaneo, Rubbia. Qual è il suo parere in merito? E secondo Lei lo
scienziato può ambire a posizioni politiche o deve fermarsi alla consulenza?
Per quanto riguarda i senatori a vita fortunatamente
l'ex Presidente della Repubblica Napolitano ha invertito la tendenza che c'era
prima. Ciò che è accaduto a partire dagli anni '50 non ha riguardato solo gli
scienziati ma tutto il mondo della cultura. Il posto di senatore a vita era
diventato una specie di cimitero degli elefanti della politica. Poi con
Napolitano è cambiato tutto: non ha nominato politici come senatori a vita, ma
due scienziati - Rubbia e Cattaneo -, oltre
al professor Monti, al maestro Claudio Abbado e all'architetto Renzo
Piano. È stato un cambiamento molto
importante: basti pensare al
lavoro che ha fatto in questi anni la senatrice Cattaneo contro il metodo
Stamina. Uno scienziato può portare nel mondo politico non solo la competenza ma
anche uno sguardo diverso. Gli scienziati tutti i giorni hanno a che fare con
dati ed esperimenti: li vagliano, ne fanno la sintesi, capiscono quali sono
quelli più affidabili. Questo porta a prendere decisioni consapevoli e a non
fidarsi dell'apparenza.
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