Donne che salvano donne

di Valentina Stella Il Dubbio 10 agosto 2018

Donne che salvano le donne: potrebbe essere questa la sintesi del progetto  “Salviamo la faccia”, nato qualche tempo fa nella Casa Circondariale Femminile diretta da Ida Del Grosso e nella sezione delle transessuali del Nuovo Complesso di Rebibbia a Roma, diretto da Rossella Santoro, che hanno fortemente voluto questa iniziativa con Gabriella Stramaccioni, Garante delle persone prive di libertà di Roma Capitale. Il progetto a cura del Centro provinciale Istruzione Adulti n.1 di Roma e dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, e promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, ha visto 60 detenute confrontarsi con diverse attività laboratoriali: scrittura creativa, teatro (a cura dell'associazione Per Ananke), serigrafia (di Made in jail),  erboristeria,  campagna fotografica e prodotto audiovisivo. La formazione didattica a cura dell’associazione “Ossigeno per l’informazione” si è concentrata sui principi-base della Costituzione italiana. Inoltre, si sono ripercorse le normative costruite sulle basi costituzionali: la legge Mancino, la violenza di genere, lo stalking (l’avvocato Giulia Masi ha prodotto un vademecum). Oltre al tema dell’empowerment, al rafforzamento dell’identità femminile, (di cui si è occupata l’esperta Simona Lanzoni) il progetto si è soffermato anche sul lavoro, sulle start-up di impresa, sulle cooperative, su quali  siano i modelli organizzativi e la capacità di lavorare in gruppo (a cura del sociologo del lavoro Gianni Costa). Ne è nato anche un cortometraggio realizzato dalla film-maker e docente di scuola carceraria, Giulia Merenda, con le riprese di Giovanni Piperno, il montaggio di Simona Paggi, e le musiche a cura di Alessandra Castellano. La pellicola, scritta e interpretata dalle donne che stanno “dentro” per le donne che stanno fuori, ha per protagoniste recluse diverse per età e provenienza geografica, tutte "marchiate" da violenze subite. E sono loro stesse a raccontare come in passato non si sono "salvate la faccia" subendo soprusi e di come invece oggi se la salvano conquistando consapevolezza, solidarietà e forza. Quest’anno il corto verrà diffuso in festival, rassegne nazionali e internazionali dalla distribuzione Premiere. E proprio il carcere femminile di Como sarà il primo istituto di pena a proiettarlo, con l’auspicio che anche altre case di reclusione possano mostrarlo, e ad intraprendere il percorso didattico già sperimentato a Rebibbia.  Come ci racconta Giulia Merenda le protagoniste del corto “sono donne in un laboratorio d'erboristeria, che, attraverso piante e fiori, curano le ferite del corpo e dell’anima. Vengono dall’Africa, dall’Europa dell’Est, dall’America Latina, ma anche da Ostia, e parlano di una vita vissuta duramente per risvegliare le donne normali, che stanno fuori: lo fanno come se fossero in una fiaba, con le mani in pasta a mescolare intrugli colorati per creare maschere di bellezza, riparandosi dal sole sotto cappelloni di carta di giornale, nei pressi di uno stagno con i fiori di loto”. Nell’ambito del progetto contro la violenza sulle donne, le detenute  hanno anche risposto in forma anonima ad un questionario con lo scopo di riscontrare se queste donne si trovino in un istituto di pena per proteggere qualcuno - essendosi addossate colpe, magari, di una figura maschile, come un figlio, un marito, un fratello - o se siano state violate della propria libertà e di conseguenza costrette a svolgere azioni, che hanno comportato la loro carcerazione. Da esso è emerso che la maggior parte di loro si trova in carcere perché costrette all’illegalità da figure maschili del loro ambiente di provenienza: appunto mariti, figli, fratelli, ecc. Molte hanno subito violenza almeno una volta nella loro vita da parte di un uomo. Non per tutte è stato facile parlarne e solo alcune hanno deciso di raccontarlo pubblicamente. Per molte è viva la paura e il senso di colpa e la cultura di origine è prevalente. “Tuttavia – prosegue Giulia Merenda -  la riflessione, il confronto, il riconoscimento, l’espressione orale o teatrale, il contatto con la natura e il proprio corpo nel laboratorio di erboristeria, l’elaborazione di slogan come riaffermazione identitaria, sono sicuramente segno di un cambiamento all’interno del vissuto di queste donne”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue