Intervista a Vittorio Manes

 Valentina Stella dubbio 18 settembre 2024


Come già raccontato ieri da queste pagine il comunicato stampa del procuratore di Parma Alfonso D’Avino, in merito alla vicenda dei due neonati trovati morti in un giardino di una casa a Traversetolo, rappresenta una rara eccezione tra le Procure d’Italia. Ne parliamo con il prof. avv. Vittorio Manes. Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Bologna, il cui libro «Giustizia Mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo» (Il Mulino, 2022) è stato citato dallo stesso magistrato in merito ai devastanti effetti del processo mediatico parallelo a quello giudiziario.


Professore, finalmente un magistrato che si rende conto delle conseguenze negative del processo mediatico, a maggior ragione in presenza di un grave reato.


Mi pare davvero apprezzabile il comunicato del Procuratore di Parma, dott. D’Avino, sia per la particolare autorevolezza della fonte che per le circostanze di contesto, vista la gravità della vicenda e la difficoltà di arginare le crescenti richieste di informazioni: dimostra una rara sensibilità per i valori in gioco, e per le ricadute devastanti che la sovraesposizione mediatica può avere per le indagini e, soprattutto, per i diritti fondamentali delle persone coinvolte.


Ha notato anche lei, da alcune particolari espressioni del procuratore, che è consapevole di essere spiazzante rispetto alle aspettative?


Certo, è un comunicato sorprendente e “spiazzante”, come lei lo definisce, rispetto alle attese, perché dal loro canto giornali e media reclamano – comprensibilmente – il diritto di cronaca. Ma il dovere di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non sono valori assoluti, al cospetto del quale possono essere dimenticati e calpestati gli ulteriori valori, parimenti importanti, che stanno sull’altro piatto della bilancia: altrimenti gli uni diventano diritti tirannici, e gli altri si riducono a “garanzie di carta”, o a semplici “paper rules”. Tra i valori contrapposti, come appunto evidenzia il comunicato, si staglia in primo piano la presunzione di innocenza, principio e valore che rischia di essere annichilito dalla spettacolarizzazione mediatica delle indagini, trasformando l’indagato in un “presunto colpevole”, o in un “colpevole in attesa di giudizio”. Una rappresentazione che in casi di reati gravissimi come quello di cui si sta parlando finisce col trasformare l’indagato in un autentico “mostro” agli occhi dell’opinione pubblica, distruggendone irrimediabilmente l’immagine pubblica e privata: se è così, deve essere tanto più condivisa ed apprezzata, dunque, la particolare cautela che ha ispirato l’iniziativa del Procuratore di Parma, nell’evitare di produrre effetti informativi che, per la posizione dei soggetti coinvolti, sarebbero, sostanzialmente, irreversibili.


 


È interessante anche il fatto che citi anche il suo libro perchè riconosce i limiti della sua funzione e l'importanza dei contributi degli esperti non magistrati.


Al di là della citazione personale, è sicuramente apprezzabile che un magistrato si confronti con le opinioni degli esperti e degli studiosi, della “dottrina”, perché solo dalla considerazione, dal rispetto e dal confronto critico con le posizioni altrui può svilupparsi una comune sensibilità per i valori sul tappeto. Del resto, dovrebbe essere chiaro che tutti gli attori che partecipano o osservano il processo penale contribuiscono paritariamente alla amministrazione della giustizia, a prescindere dalla appartenenza alla magistratura, al foro o all’accademia: avere cioè la consapevolezza che la giustizia – come scrisse Balzac – dipende essenzialmente dalle azioni di tutti i protagonisti di quella pièce giudiziaria che è il processo. Ciò significa che il dialogo tra i diversi attori, all’interno della “comunità degli interpreti”, è un metodo necessitato, imprescindibile, per individuare i problemi e per rintracciare possibili soluzioni.



L'iniziativa del Procuratore di Parma conferma che c'era bisogno del recepimento della direttiva europea?


Il recepimento della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza è stato un primo passo, significativo ma certo non risolutivo, e come tutti i provvedimenti normativi presenta criticità e margini di miglioramento. Ha però evidenziato l’urgenza del problema, dando inizio ad una “profilassi” che deve essere ancora sviluppata compiutamente, anche ed anzitutto sul piano culturale: ed anche da questa angolatura mi pare apprezzabile il Comunicato, perché si sforza di promuovere un diverso atteggiamento culturale, “sensibile” ai valori in gioco.


Il comunicato del Procuratore termina annunciando che «vi è stata l’apertura di un fascicolo per possibile violazione del segreto di indagine in relazione alla propalazione della relativa notizia, che rischia di incidere sulle acquisizioni investigative in corso». Si tratta anche questa di una iniziativa isolata perché, pur venendo violato il segreto in altre Procure, non si indaga mai sulla fuga di notizie. 


Vero. La repressione sanzionatoria, a mio avviso, non è mai una soluzione convincente, ma un divieto sistematicamente lasciato privo di sanzione mina la stessa credibilità del precetto, ingenerando la convinzione che sia sostanzialmente “ammesso” trasgredire il segreto istruttorio, con effetti fortemente negativi sulla efficacia delle stesse indagini.


Secondo lei cosa occorre fare per invertire la rotta di un processo mediatico parallelo dove stampa e magistratura di dividono le responsabilità?


È un problema complesso, che ha una dimensione anzitutto culturale, e come tale non credo che vi sia una qualche misura terapeutica, o una qualche soluzione legislativa, che possa risolverlo: serve piuttosto una diversa sensibilità e una rinnovata consapevolezza, da parte di tutti gli attori, della estrema vulnerabilità e “deperibilità” di valori come la presunzione di innocenza o il rispetto della vita privata e familiare, e tutti dovrebbero contribuire ad una informazione “rights-sensitive”, sensibile, attenta e rispettosa dei diritti in gioco. Perché, ad esempio, non pensare ad percorso di formazione specialistica e di “professionalizzazione” per il giornalista chi si occupa di cronaca giudiziaria? E ad un sistema di incentivi (o di disincentivi) per i giornali o i media che dimostrano di offrire sempre una informazione giudiziaria rispettosa dei valori in gioco, evitando toni sensazionalistici, espressioni o aggettivazioni colpevoliste, forme di spettacolarizzazione tanto gratuite quanto pregiudizievoli per gli interessati?


Bisogna anche ammettere però - e diversi casi di cronaca lo confermano  - che, come scrive lei, «quando l'avvocato si presta a questo gioco (al processo mediatico, ndr) lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve».


Questa è la tentazione in cui può cadere l’avvocato, quando cede alle lusinghe della ricerca di visibilità, senza avvedersi che il torrente mediatico rischia sempre di travolgere chi lo alimenta e pensa magari di governarlo, finendo invece per pregiudicare anche la posizione del proprio assistito. Sempre meglio attenersi a una comunicazione sobria, ed essenziale, e solo ove ciò sia davvero necessario per indirizzare una informazione corretta sull’evoluzione della vicenda o per correggere eventuali notizie distorte e pregiudizievoli per l’assistito.

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