Caso Turetta: intervista a Oliviero Mazza

 Valentina Stella Dubbio 30 luglio 2024

 

Pubblicazione della conversazione di Filippo Turetta con i genitori in carcere: ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca.

 

Professore, partiamo dal merito di quella intercettazione. Qual è il suo parere?

 

Si tratta di un dialogo familiare palesemente irrilevante per le indagini e per l’accertamento. Non comprendo la ragione per la quale si è voluta dare pubblicità alla ingerenza degli inquirenti nel segreto familiare tutelato dalla legge penale, tanto sul versante processuale quanto su quello sostanziale. Per comprendere la gravità dell’accaduto, bisogna tener presente che il legislatore, compreso quello fascista, ha sempre tutelato il sentimento di solidarietà fra prossimi congiunti, escludendo l’obbligo di testimoniare e prevedendo la non punibilità di eventuali reati dichiarativi commessi per salvare il proprio parente. La gogna pubblica riservata ai genitori dell’imputato ci dà la misura del degrado morale e giuridico del nostro Paese.

 

Elena Loewenthal su La Stampa ha detto che così si normalizza il femminicidio. 

 

I dialoghi familiari dovrebbero essere coperti dalla riservatezza e dal pudore, non possono certo essere considerati proclami di indirizzo politico. Si vuole ammantare di rilievo pubblico un colloquio che nasce strettamente privato, mi sembra una strumentalizzazione gravissima. Quello che un genitore dice a un figlio in carcere in attesa di giudizio deve rimanere un fatto privato.

 

Passiamo al metodo. La conversazione, intercettata dalle microspie degli investigatori, è stata depositata agli atti del procedimento contro Turetta. Quindi essendo nel fascicolo poteva essere pubblicata? 

 

Assolutamente no. Ai sensi dell’art. 114 comma 3 c.p.p., gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, come le intercettazioni, non possono essere pubblicati, anche solo parzialmente, se non dopo la sentenza di primo grado. Di conseguenza, risulta perfettamente integrato il reato di pubblicazione arbitraria di atti del procedimento (art. 684 c.p.), contravvenzione procedibile d’ufficio per la quale speriamo sia già stato aperto un procedimento penale.

 

Qualche mese fa sono stati resi noti anche i verbali dell'interrogatorio dell'imputato dinanzi al pubblico ministero. Illecito anche questo?

 

Anche in questo caso, la pubblicazione, sia pure parziale, dei verbali di interrogatorio integra una violazione dell’art. 114 commi 2 e 3 c.p.p. e, di conseguenza, dell’art. 684 c.p., ma sembra che questi reati siano ormai una consuetudine tollerata nella prassi giudiziario-mediatica italiana.

 

Questa vicenda fa emergere in generale un problema della pubblicità degli atti di una indagine? Come si potrebbe evitare tutto questo?

 

Da tempo sostengo che si debba pensare a un fascicolo della stampa nel quale fare legittimamente e ufficialmente confluire gli atti pubblicabili. Ciò consentirebbe non solo di responsabilizzare in modo chiaro pubblici ministeri e gli investigatori, ma anche di evitare il mercato nero delle notizie sotto banco che alimenta la stampa scandalistica. Si spezzerebbe così il circolo vizioso dei rapporti privilegiati fra certi giornalisti ed alcuni inquirenti, mettendo tutta la stampa in condizioni di parità di accesso alle informazioni ufficialmente ostensibili e pubblicabili. Al tempo stesso bisogna rendere seria la reazione alla pubblicazione arbitraria degli atti del procedimento, oggi affidata a una contravvenzione passibile di oblazione ossia di estinzione pagando una somma risibile di poche centinaia di euro.

Si potrebbe prevedere, invece, la responsabilità dell’editore ai sensi d.lgs. 231 del 2001. Chi pubblica arbitrariamente atti del procedimento compie un crimine lucro genetico ed è giusto colpire i profitti illeciti sotto forma di confisca, anche per equivalente. Aggredire il patrimonio di chi guadagna sulla pubblicazione scandalistica degli atti processuali mi sembra l’unica seria reazione che può apprestare un ordinamento democratico.

 

Il padre di Turetta in una intervista si è scusato e ha spiegato che quelle parole servivano solo per evitare che il figlio potesse suicidarsi. Tutta questa gogna, questo voyeurismo dipende dai giornali che alimentano i nostri impulsi più bestiali o è la stampa che risponde alle esigenze delle tricoteuse 2.0?

 

È un circolo vizioso in cui la stampa alimenta la curiosità morbosa del pubblico e viceversa. Del resto, fin dal tempo dell’antica Roma il sangue dei giochi circensi era lo spettacolo preferito dal popolo, nulla di nuovo. Vedo invece una tendenza preoccupante a sovrapporre diritto e morale, come nel sistema della giustizia ripartiva. Bisogna difendere la laicità del diritto penale e ribadire con fermezza i limiti costituzionali dell’intervento punitivo che non può e non deve pretendere una resipiscenza morale, ma solo una tendenziale rieducazione in termini di esclusione del pericolo di recidiva.

 

Ricordiamo anche che mesi fa fu lanciata una petizione in cui si chiedeva al docente e avvocato di Turetta di rinunciare al mandato. Nei casi di femminicidio e di codice rosso in generale, secondo lei vengono ancora maggiormente indeboliti i principi di uno Stato di diritto?

 

Sono processi in cui la presunzione di non colpevolezza è ribaltata e la difesa limitata alla mera negoziazione della pena. Il fatto e la relativa responsabilità sono già accertati dal tribunale del popolo nel corso del processo social-mediatico. La condanna senza garanzie è l’emblema dell’immoralità dei nostri tempi, alimentata non solo dalla stampa, ma anche da politiche populiste e demagogiche. Ci vuole un cambio di passo, un ritorno al giusto processo in proporzione diretta alla gravità delle accuse. Senza per questo rinunciare alla vera battaglia che si deve condurre sul piano della prevenzione.

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