41bis per gli internati: la Consulta dice sì ma devono poter lavorare

 di Angela Stella Il Riformista 22 ottobre 2021

È legittima la disciplina che consente di applicare il regime del carcere duro (41 bis) agli internati in casa di lavoro? La Corte Costituzionale ha risposto ieri di sì con la sentenza n. 197 ma ponendo una condizione.  Ribadendo che le speciali restrizioni previste dall'art 41 bis sono «applicabili anche agli internati, cioè alle persone considerate socialmente pericolose e, in quanto tali, soggette, dopo l’espiazione della pena in carcere, alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro», tuttavia ha precisato che, proprio in considerazione della specifica natura di quest’ultima misura, «e alla luce dei principi costituzionali di ragionevolezza e di finalità rieducativa, il trattamento differenziale previsto dall’articolo 41 bis deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa».  A sollevare il dubbio di legittimità costituzionale era stata nel 2020 la Cassazione, investita da un ricorso proposto da una persona assoggettata alla misura di sicurezza della casa di lavoro, già condannata per gravi delitti di criminalità organizzata, contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva confermato la legittimità del decreto ministeriale di proroga del 41bis nei suoi confronti, in considerazione della perdurante pericolosità criminale dell’interessato. Qual è il problema: per gli internati il trattamento previsto consiste in misure risocializzanti realizzate attraverso interventi finalizzati alla rieducazione da parte degli educatori che operano nelle case di lavoro, sperimentazione di reingresso sociale, interventi di sostegno esterno sul contesto familiare e socio-lavorativo. Tuttavia, quando la casa di lavoro è vissuta con la contemporanea sottoposizione al 41bis, si assiste, secondo la Cassazione, «ad una fortissima compressione delle regole ordinarie trattamentali, con sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, determinando un regime sostanzialmente identico tra internati e detenuti». Invece, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate  le censure sollevate dalla Cassazione «a condizione che all’articolo 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme», che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale di volta in volta si riferisce: «trattandosi di un internato assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività professionali compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione a costoro della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato articolo 41 bis».  In definitiva, secondo l’interpretazione affermata dalla sentenza, gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. 

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