«Ora la magistratura ripudi queste pratiche degenerative

di Angela Stella Il Riformista 17 luglio 2020


Guido Raimondi attualmente è Presidente di sezione della Corte di Cassazione ma per nove anni è stato giudice della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, di cui è stato anche Presidente dal 2015 al 2019. In questa lunga intervista abbiamo affrontato tutti i temi che sono al centro del dibattito sulla giustizia in questi giorni.
È ormai evidente che la magistratura sta attraversando una profonda crisi.  Qual è il suo parere in merito?
Certamente le rivelazioni sulle modalità con le quali si è proceduto al CSM in molti casi -  dalla selezione dei magistrati da avviare a posizioni direttive alla decisione della Corte di Cassazione del 2013 sulla questione dei diritti televisivi, hanno destato profondo sconcerto, dentro e fuori la magistratura.  Il rischio della strumentalizzazione di queste notizie è alto, ma questo non deve farci velo nel prendere atto che il tema della autorevolezza e della credibilità della magistratura è oggi, giustamente, al centro dell’attenzione, per quanto questo possa, comprensibilmente, dispiacere ai magistrati. È perciò opportuno che vi sia un dibattito il più possibile aperto, per permettere all’opinione pubblica di farsi un’idea chiara e consapevole. Non c’è miglior disinfettante, diceva il giudice Brandeis, della luce del sole.
Cesare Mirabelli ci ha detto che in realtà non è solo un problema della magistratura, ma del sistema giustizia a partire dalla lunghezza dei processi.
Sarebbe sbagliato, credo, pensare che il discredito che indubbiamente è piovuto sui giudici sia un problema della sola magistratura.  Una giustizia autorevole, autonoma e indipendente è condizione dell’esistenza di una moderna democrazia liberale, che è la forma di governo stabilita dalla nostra Costituzione e nella quale, fino a prova contraria, vogliamo vivere.  Non si tratta di un valore esclusivamente nazionale. Al contrario, sessant’anni di giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le cui sentenze si indirizzano a 47 Stati europei, dimostrano che il progetto europeo è costruito a partire dal valore della democrazia liberale, condizione essenziale della quale è una giustizia autonoma, indipendente e credibile. Conferma eloquente di ciò vi è nell’appropriazione di questa giurisprudenza da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, come si è visto con la serie di sentenze, relative alle recenti riforme del sistema giudiziario polacco, con le quali i giudici di Lussemburgo hanno ribadito l’imprescindibilità, per la costruzione europea, di una giustizia della qualità che ho indicato. Se una vera democrazia non può prescindere da una giustizia autonoma, indipendente e credibile, essa non può neanche fare a meno di un’avvocatura libera. Quindi il problema è di noi tutti come cittadini e non può preoccupare i soli magistrati. Giustamente la sua domanda, accanto al tema del discredito sollevato dalle recenti vicende, evoca quello della lunghezza dei processi.  Non si può dire che le autorità italiane siano state inerti rispetto a questo endemico problema, ma è sotto gli occhi di tutti che, nonostante le riforme realizzate, il sistema giudiziario italiano non raggiunge gli standard di efficienza che sarebbe legittimo attendersi da un moderno Paese europeo, con evidenti ricadute negative in vari contesti, tra i quali sempre di più emerge con forza quello economico, essendo evidente come una giustizia non efficiente costituisca un freno potente agli investimenti. In questo contesto forse dobbiamo guardare alla presente crisi epidemiologica come a un’opportunità. Se risorse straordinarie sono attese, non sarebbe forse sbagliato individuare, come terreno privilegiato per il loro uso, proprio la giustizia, la cui rinnovata efficienza sarebbe sicuramente motore di sviluppo.
A proposito di lentezza dei processi, secondo le recenti statistiche della Cedu dal 1959 al 2019 l'Italia è stata interessata da 2410 procedimenti (peggio di noi Russia e Turchia) di cui 1843 hanno riscontrato una violazione. Di questi 1197 hanno riguardato la lunghezza dei processi e 287 il diritto ad un giusto processo.
Sì, come dicevo il problema resta vivo a livello europeo, sebbene l’Italia abbia avviato delle riforme e si sia dotata di un meccanismo interno, la legge Pinto, per dare soddisfazione già in patria a chi abbia subito un processo troppo lungo, meccanismo, tra l’altro, costosissimo per l’Erario.  Il problema non è solo italiano, ma bisogna riconoscere che per noi esso si presenta con una particolare gravità e, come dicevo, credo sia meritevole di un’azione prioritaria. Come violazione dei diritti umani certo la lunghezza eccessiva dei processi non è paragonabile alla tortura o alla riduzione in schiavitù, ma non va banalizzata. Se la giustizia non è efficiente, oltre che autonoma, indipendente e credibile, vuol dire che lo Stato di diritto non funziona bene. Da questo punto di vista devo registrare, ed è un rilievo positivo, una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica, che comincia a rendersi conto di come questo problema non possa semplicisticamente essere ricondotto ad una pretesa – e totalmente indimostrata – neghittosità dei magistrati, ma sia il frutto di molteplici fattori, che richiedono interventi complessi ed articolati e un serio impegno da parte dei decisori politici.
Le correnti della magistratura sono espressione della libertà di associazione ma è chiaro che hanno ricoperto un ruolo anomalo nel pretendere posti di rilievo per gli appartenenti ad esse, tagliando fuori molto spesso coloro che non ne fanno parte. È d'accordo con questa sintesi? E come porre rimedio?
La sintesi è dolorosa da ascoltare, ma sembra difficilmente contestabile. Le correnti hanno rappresentato e rappresentano un potente mezzo di dialogo e di crescita culturale della magistratura. Personalmente ho partecipato a diversi convegni su vari temi organizzati da Unità per la Costituzione, Magistratura Indipendente e Magistratura Democratica, e devo dire che in queste occasioni ho sempre apprezzato il rigore metodologico, l’apertura mentale e l’assenza di spirito settario degli organizzatori. È triste che oggi si presentino le correnti come fenomeni quasi criminali.
Come è potuto succedere?
È duro da accettare, ma quello che mi pare sia mancato è una cosa molto semplice, che dovrebbe essere intuitiva per chi ha scelto di abbracciare la carriera di magistrato, e cioè la necessità di comportarsi sempre ed esclusivamente al servizio dell’istituzione cui si appartiene – che sia un ufficio giudiziario o il CSM – e quindi dell’interesse superiore al cui presidio la stessa istituzione è posta. La Costituzione lo dice con parole non difficili da capire all’art. 54, molto citato in questi giorni, secondo cui “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.  C’è stato un corto circuito.  Che le correnti animino, all’interno dell’ANM, dinamiche paragonabili a quelle politiche o sindacali non è cosa che possa scandalizzare. Che le elezioni interne all’Associazione riflettano sensibilità, anche politiche, diverse, mi sembra assolutamente normale. È giusto che gli organi direttivi dell’ANM siano lo specchio di queste diverse sensibilità perché si trovi una sintesi da far valere, appunto, sul piano dell’azione dell’ANM. Mi sembra pure fisiologico che i magistrati eleggano al CSM colleghi con i quali avvertono una sintonia sul modo di concepire il lavoro del magistrato e, perché no, anche valoriale. Non mi scandalizza, in questo contesto, il ruolo elettorale delle correnti. Qui, però, la normalità finisce.
E cosa inizia invece?
Una volta eletto al CSM, un magistrato non può comportarsi come il componente di un organo politico o sindacale, le cui scelte e prese di posizione non possono prescindere, senza conseguenze, dalle determinazioni della centrale politica o sindacale di riferimento.  Il CSM è un organo di garanzia, posto a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, il che vuol dire che i suoi componenti hanno il dovere, non diversamente dai giudici della Corte costituzionale, di non richiedere e di non accettare istruzioni da alcuno. Un componente del CSM “eterodiretto” è una bestemmia istituzionale. È dovere di ciascun membro del CSM di seguire nelle sue determinazioni null’altro che scienza e coscienza, al servizio dell’interesse superiore a presidio del quale l’istituzione è posta.  
E la riconoscenza verso coloro che hanno facilitato l’elezione?
Vi è il “dovere d’ingratitudine” che è proprio dei componenti degli organi di garanzia, anche qui, proprio come i giudici della Corte costituzionale, i quali  sono tenuti ad essere “ingrati”, cioè ad  essere indipendenti, rispetto alle autorità che li hanno eletti o nominati.  Non si può pensare che se il meccanismo di nomina in organo di garanzia è elettivo l’attività dell’organo diventi politica. Questo è il corto circuito cui ho fatto riferimento. Anche i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono eletti (dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa), ma nessuno di loro si sognerebbe di orientare le proprie determinazioni tenendo conto delle preferenze dei loro elettori. Come dicevo, sono concetti di una semplicità estrema, ed è desolante che il loro senso si sia smarrito.  
I rimedi?
Mi piacerebbe poter rispondere con un attestato di fiducia nella capacità della magistratura di ripudiare queste pratiche degenerative con un soprassalto di dignità e con un’adesione spontanea e convinta all’invito accorato che è stato rivolto a tutti noi dalla cattedra più alta del nostro Paese, quella del Presidente della Repubblica.  Forse però questo non è sufficiente, se il costume che è emerso dalle vicende che stiamo commentando ha potuto affermarsi, e persino acquisire caratteri di apparente normalità, pur in presenza di un codice etico, adottato dall’ANM, che in modo piuttosto chiaro prevede all’art. 1 che “Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità.”
E un intervento legislativo potrebbe essere risolutivo?
Sarei molto cauto quanto a un possibile intervento legislativo. Troppo forte sarebbe la tentazione di utilizzare l’occasione per limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.  A mio sommesso giudizio occorre che l’ANM prenda una posizione chiara nello stigmatizzare come assolutamente impropri e censurabili tutti i comportamenti – da chiunque posti in essere - volti a condizionare l’autonomia dei membri del CSM, i quali nell’esercizio delle loro importanti funzioni debbono rispondere solo alla Costituzione, alla legge e alla loro coscienza. La dimensione etica va forse poi curata un po’ meglio nella fase del tirocinio dei nuovi magistrati. Occorre avere la consapevolezza che la legittimazione della magistratura, e quindi la sua credibilità, riposa su due pilastri, che sono da una parte la preparazione tecnico-giuridica, accertata in modo obiettivo, e, dall’altra, l’assoluta integrità personale di ciascun appartenente all’ordine giudiziario. L’una senza l’altra non è assolutamente sufficiente.
Non c’è altra via che il rigore dei comportamenti dunque?
Ciascun magistrato deve avere ben presente che l’autonomia e l’indipendenza che la Costituzione gli accorda non solo non sono un privilegio personale, ma implicano il dovere di un’assoluta severità con sé stessi. Gli utenti della giustizia hanno il diritto di pretendere che chi è chiamato a decidere le loro controversie sia assolutamente libero di farlo secondo scienza e coscienza. La libertà e l’indipendenza del magistrato vanno dunque vissute come un dovere. Sono concetti la cui appartenenza al patrimonio morale di tutti coloro che entrano in magistratura non può essere presunta, e che vanno quindi illustrati ai giovani magistrati in modo sistematico.
Non Le sembra che il dott. Palamara sia divenuto un facile capro espiatorio dei mali endemici che attraversano la magistratura italiana?
La prego di scusarmi, ma preferisco non esprimermi sulla vicenda specifica del dott. Palamara, anche perché la Corte di cassazione, alla quale appartengo, potrebbe essere chiamata ad occuparsene. Ho già detto, affrontando la questione nei suoi termini generali, che purtroppo non siamo di fronte ad episodi isolati. Ne viene di conseguenza la necessità di una presa di coscienza e di una riflessione a largo raggio, che coinvolga tutti i magistrati, nessuno escluso.
Il CSM ha bisogno di essere riformato?
Come dicevo, sarei cauto nell’auspicare un intervento legislativo. Il problema deve essere risolto sul piano del costume e dei comportamenti. Non vorrei indulgere alla retorica della “maggioranza sana” del corpo dei magistrati, ma è un fatto che mediamente si può contare sull’integrità di chi è chiamato a svolgere funzioni giudiziarie. Credo che si possa essere moderatamente ottimisti quanto alle possibilità di successo di un’azione di richiamo ai valori etici della professione, purché vi sia fermezza, a partire dall’ANM e nell’agire quotidiano di tutti i magistrati, nello stigmatizzare comportamenti impropri, e nel dissipare ogni dubbio sull’inaccettabilità di ogni tentativo di condizionamento – comunque motivato – di chi sia chiamato a prendere decisioni sulla carriera dei colleghi, specie nel CSM, decisioni nelle quali l’appartenenza di chi le prende -  o di chi ne è destinatario - a questa o a quella corrente non dovrebbe avere alcun peso. Il solo sospetto che le decisioni sui magistrati vengano prese per ragioni diverse dal merito toglie evidentemente credibilità e autorevolezza all’istituzione. Detto questo, quanto alle possibili riforme bisogna essere rispettosi delle prerogative del Parlamento che, nei limiti fissati dalla Costituzione, si determinerà secondo le proprie valutazioni.  
Volendo entrare più nel merito delle possibili proposte in campo per riformare il Csm?
Personalmente non credo siano auspicabili modifiche quanto al rapporto numerico tra membri togati e laici del CSM o ai procedimenti disciplinari. Quanto ai meccanismi elettivi della componente togata, mi pare difficile garantire la libertà degli eletti modificando il sistema elettorale. La soluzione è nell’affermazione, prima di tutto nelle coscienze degli eletti e degli elettori, dell’idea, cui accennavo un istante fa, del “dovere d’ingratitudine” che grava sugli eletti, un’idea che forse non è stata fino ad oggi veramente recepita, ma che è essenziale per il buon funzionamento delle istituzioni di garanzia.
In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere, ormai indipendente dalla magistratura. È d'accordo?
Le opinioni del Prof. Cassese sono sempre autorevoli. Non si può negare che il corpo dei pubblici ministeri, nettamente minoritario all’interno della magistratura, abbia per forza di cose una più netta visibilità rispetto alla componente giudicante. Nemmeno ci si può nascondere che questa maggiore visibilità abbia costituito in qualche caso una potente tentazione per qualche magistrato attirato dalle sirene della politica. Detto questo, per quella che è la mia esperienza, mi sono fatto l’idea che la stragrande maggioranza dei pubblici ministeri italiani condivide pienamente la cultura della giurisdizione che è propria dell’intera magistratura, e che quindi ci si possa attendere da loro comportamenti equilibrati e garantistici rispetto ai diritti individuali non diversi da quelli dei giudici.
A fine luglio l'Aula della Camera discuterà di separazione delle carriere tra pm e giudici. Lei sarebbe d'accordo su questa riforma?
La mia opinione vale ciò che vale, cioè nulla, ma da quanto dicevo prima è evidente che la mia preferenza è nel senso della conservazione della tradizione italiana di unicità della carriera dei magistrati, che siano giudicanti o del pubblico ministero, proprio perché un pubblico ministero che partecipi pienamente della cultura della giurisdizione garantisce meglio a mio sommesso giudizio i diritti individuali.

L’Unione delle Camere Penali non sarebbe d’accordo.
So che i penalisti italiani non sono d’accordo. L’argomento principale che viene portato a sostegno di questa idea, e cioè che la comunanza di carriera renda più “pesante” agli occhi del giudice l’opinione del pubblico ministero rispetto a quella del difensore mi pare che provi troppo. Da una parte ci sono i tanti casi di assoluzioni pronunziate dai giudici in presenza di richieste di condanna del pubblico ministero. Dall’altra, a portare l’argomento alle estreme conseguenze, occorrerebbe allora provvedere a tante separate carriere di magistrati per quanti sono i gradi di giudizio, per evitare che il giudice superiore sia sempre portato a confermare, per la comunanza di carriera, la decisione di quello del grado precedente.
Il nostro giornale ha reso nota la trascrizione di una conversazione tra Silvio Berlusconi e il dott. Amedeo Franco. Che idea si è fatto sulla vicenda?
Anche questa è una vicenda sconcertante, che come dicevo mi pare debba essere ancora chiarita nei suoi precisi contorni. Un aspetto delicato è costituito dal fatto che il giudice Franco non è più tra noi e quindi non può replicare a quanto si dice di lui. Detto questo, credo non si possa non essere d’accordo con quanto osservato dall’ex Primo Presidente della Corte di cassazione, Ernesto Lupo, il quale ha fatto notare come, al di là degli aspetti penali, il comportamento di un giudice che violi il segreto della camera di consiglio sia sempre disdicevole.
Qualche giorno fa abbiamo ospitato un intervento del professor Andrea Pugiotto sull'ergastolo ostativo. Qual è il Suo giudizio sul tema?
Avendo partecipato alla decisione della Cedu, nel caso Marcello Viola c. Italia, mi limito a dire che, come emerge dal testo della sentenza, alla quale è annessa una sola opinione dissenziente, e che è stata adottata a maggioranza con sei voti contro uno, ero tra i giudici della maggioranza. Come vede, a differenza di quanto avviene nel diritto processuale italiano, per le sentenze della Corte di Strasburgo si può legittimamente sapere se una decisione è stata presa a maggioranza e quale fosse la posizione dei singoli giudici. Detto questo, devo fermarmi, non essendo opportuni commenti da parte mia su una decisione giudiziaria alla quale ho preso parte. In termini generali, è vero che a partire dal caso Vinter c. Regno Unito la Corte di Strasburgo ha teorizzato il c.d. “diritto alla speranza”. Questo però non significa che la pena della reclusione perpetua sia in sé contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ciò che la Corte dice è che una detenzione che si prolunghi oltre la sua necessità penologica, quando cioè non vi siano più ragioni per trattenere il condannato in carcere, entra in contrasto con l’art. 3 della Convenzione, che vieta la tortura e le pene e trattamenti disumani o degradanti.
 Durante l'emergenza covid alcuni magistrati di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti dell'alta sicurezza e del 41bis. Molte le polemiche che hanno portato anche all'intervento del Ministro Bonafede con un decreto ad hoc. Crede che le polemiche siano state strumentali e nate nelle sedi sbagliate, ossia i salotti televisivi?
In tema di giustizia, specialmente quando si tratta di temi securitari altamente sensibili politicamente, il rischio di strumentalizzazioni è sempre elevato, così come quello di un’interessata distorsione dell’informazione. Detto questo, non sarò io a dirmi in favore di una compressione della libertà d’informazione, ossigeno della democrazia.
 Nel suo ultimo speech annuale quale Presidente della Cedu ha detto che gli uomini e le donne della sua generazione “hanno avuto per molto tempo la consapevolezza che la democrazia, una volta stabilita, non può essere annullata. Ma, come alcuni studiosi hanno osservato, stiamo assistendo a un fenomeno di disillusione sociale, che potrebbe portare alla deconsolidazione democratica”. Possiamo approfondire?
Ho voluto semplicemente dire che il sistema europeo di protezione dei diritti umani, messo in piedi con la Convenzione firmata a Roma nel 1950, è una efficace polizza di assicurazione contro possibili derive autoritarie, e che quindi è un bene prezioso da preservare. Ciò anche perché non è più possibile dare per scontato il perpetuarsi della democrazia, come invece la mia generazione aveva forse ingenuamente creduto.Tentativi di erosione delle basi della democrazia sono sotto gli occhi di tutti. Ho ricordato le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea a difesa dell’autonomia della magistratura come condizione essenziale della democrazia liberale, precondizione della partecipazione all’Unione, in risposta a riforme chiaramente ispirate a idee diverse.
A cosa si riferisce?
Si è potuto parlare di “democrazia illiberale” o anche di legittima “dittatura della maggioranza”. Sono idee del tutto incompatibili con il concetto di democrazia pluralistica teorizzata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e che è patrimonio comune dei 47 Stati che, con la Convenzione del 1950, hanno voluto mettere in piedi la garanzia collettiva dei diritti fondamentali della persona umana. La crisi economica, aggravata dal Covid-19, la percezione del fenomeno migratorio dei nostri tempi come minaccia d’invasione e altre difficoltà, come la sensazione d’insicurezza prodotta dal dilagare della criminalità, possono condurre al ripiegamento degli Stati su sé stessi, alla violenza e anche a derive autoritarie, quando ad alcuni, se non a molti, appaia conveniente barattare quote di libertà con quote di sicurezza. È una tentazione a mio giudizio pericolosa, perché l’autoritarismo conduce alla guerra e ad altri disastri. Siamo quindi grati alla lungimiranza dei padri della Convenzione europea, e lavoriamo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo continui a guidare i giudici – e anche i legislatori – nazionali nell’efficace tutela dei diritti umani preservando la democrazia pluralistica, e quindi nel quadro dello Stato di diritto e nel rispetto delle minoranze e delle opinioni contrarie a quelle di chi detiene il potere.
Da oltre 60 anni la Corte contribuisce all'armonizzazione delle norme europee in materia di diritti e libertà. A che punto siamo?
Con la Convenzione, settant’anni fa, e con la Corte, che come lei ricorda ha cominciato a lavorare più di sessant’anni fa, gli Stati europei hanno messo in piedi un cantiere che non dovrà necessariamente vedere la fine, giacché l’opera rimarrà incompiuta per definizione, dato che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è chiamata a confrontarsi con una società in continua evoluzione, che richiede quindi una lettura dei diritti convenzionali sempre al passo con i tempi. Parlo della dottrina dello “strumento vivente” che la Corte ha introdotto nel 1978, non senza contrasti, con la sentenza Tyrer c. Regno Unito. Detto questo, i progressi in materia di tutela di diritti umani compiuti grazie alla giurisprudenza della Corte sono immani. Il dovere degli Stati contraenti di riformare i loro ordinamenti giuridici nei casi in cui le sentenze della Corte ne rivelino la tensione con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ha condotto ad innumerevoli cambiamenti nella legislazione degli stessi Stati. Sarebbe impossibile anche tentare un elenco in questa risposta. Consiglierei a tutti coloro che siano curiosi di saperne di più di consultare il sito del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: https://www.coe.int/en/web/execution/home .
Per quanto riguarda il nostro Paese?
Per quanto riguarda l’Italia mi limiterei a ricordare tre casi: Torreggiani, del 2013, che ha dato luogo, tra l’altro, all’introduzione nel sistema italiano di ricorsi posti a disposizione di detenuti vittime di fenomeni di sovraffollamento carcerario, Cestaro, del 2015, relativo alle violenze poliziesche perpetrate durante il G8 di Genova del 2001, in seguito al quale il Parlamento italiano ha adottato, dopo una lunga attesa, la legge contro la tortura del quale il nostro Paese era sprovvisto e Oliari, sempre del 2015, sulle coppie omosessuali, che ha indotto il nostro Paese a dotarsi, finalmente, di un quadro giuridico per le unioni civili, la legge Cirinnà. Gli esempi potrebbero essere moltissimi, e dimostrano la vitalità del sistema e come gli Stati finiscano nella stragrande maggioranza dei casi per seguire le indicazioni della Corte, così realizzando un progresso effettivo nella tutela dei diritti umani.
Ma qualcuno non gradisce il lavoro della Corte.
So bene che in certi ambienti europei vi è insofferenza verso quello che viene considerato “l’attivismo” della Corte di Strasburgo. Tentativi di limitare il raggio di azione della Corte vi sono stati in passato, finora senza successo, e non si può escludere che ve ne possano essere in futuro.  Dal mio punto di vista un ridimensionamento del sistema europeo di tutela dei diritti umani sarebbe pernicioso per il nostro continente. Sono, ancora una volta, ottimista. Il mio atteggiamento positivo deriva da una constatazione, quella della penetrazione dei valori convenzionali nella giurisprudenza dei giudici nazionali - veri protagonisti dell’applicazione della Convenzione - che li hanno ormai interiorizzati nelle loro coscienze, anche in Italia.  Certo, difficoltà di coordinamento e contrasti non mancano, ma resta irreversibile, credo, la scelta di far vivere la Convenzione negli ordinamenti interni, a tutela e garanzia dei diritti fondamentali di tutti noi.

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