«Ora la magistratura ripudi queste pratiche degenerative
di Angela Stella Il Riformista 17 luglio 2020
Guido Raimondi attualmente è
Presidente di sezione della Corte di Cassazione ma per nove anni è stato
giudice della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, di cui è stato anche
Presidente dal 2015 al 2019. In questa lunga intervista abbiamo affrontato
tutti i temi che sono al centro del dibattito sulla giustizia in questi giorni.
È ormai
evidente che la magistratura sta attraversando una profonda crisi. Qual è il suo parere in merito?
Certamente
le rivelazioni sulle modalità con le quali si è proceduto al CSM in molti casi
- dalla selezione dei magistrati da
avviare a posizioni direttive alla decisione della Corte di Cassazione del 2013
sulla questione dei diritti televisivi, hanno destato profondo sconcerto,
dentro e fuori la magistratura. Il
rischio della strumentalizzazione di queste notizie è alto, ma questo non deve
farci velo nel prendere atto che il tema della autorevolezza e della
credibilità della magistratura è oggi, giustamente, al centro dell’attenzione,
per quanto questo possa, comprensibilmente, dispiacere ai magistrati. È perciò
opportuno che vi sia un dibattito il più possibile aperto, per permettere
all’opinione pubblica di farsi un’idea chiara e consapevole. Non c’è miglior
disinfettante, diceva il giudice Brandeis, della luce del sole.
Cesare Mirabelli ci ha detto che in
realtà non è solo un problema della magistratura, ma del sistema giustizia a
partire dalla lunghezza dei processi.
Sarebbe
sbagliato, credo, pensare che il discredito che indubbiamente è piovuto sui
giudici sia un problema della sola magistratura. Una giustizia autorevole, autonoma e
indipendente è condizione dell’esistenza di una moderna democrazia liberale,
che è la forma di governo stabilita dalla nostra Costituzione e nella quale,
fino a prova contraria, vogliamo vivere. Non si tratta di un valore esclusivamente
nazionale. Al contrario, sessant’anni di giurisprudenza della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, le cui sentenze si indirizzano a 47 Stati europei,
dimostrano che il progetto europeo è costruito a partire dal valore della
democrazia liberale, condizione essenziale della quale è una giustizia
autonoma, indipendente e credibile. Conferma eloquente di ciò vi è
nell’appropriazione di questa giurisprudenza da parte della Corte di giustizia
dell’Unione europea, come si è visto con la serie di sentenze, relative alle
recenti riforme del sistema giudiziario polacco, con le quali i giudici di
Lussemburgo hanno ribadito l’imprescindibilità, per la costruzione europea, di
una giustizia della qualità che ho indicato. Se una vera democrazia non può
prescindere da una giustizia autonoma, indipendente e credibile, essa non può
neanche fare a meno di un’avvocatura libera. Quindi il problema è di noi tutti
come cittadini e non può preoccupare i soli magistrati. Giustamente la sua
domanda, accanto al tema del discredito sollevato dalle recenti vicende, evoca
quello della lunghezza dei processi. Non
si può dire che le autorità italiane siano state inerti rispetto a questo
endemico problema, ma è sotto gli occhi di tutti che, nonostante le riforme
realizzate, il sistema giudiziario italiano non raggiunge gli standard di
efficienza che sarebbe legittimo attendersi da un moderno Paese europeo, con
evidenti ricadute negative in vari contesti, tra i quali sempre di più emerge
con forza quello economico, essendo evidente come una giustizia non efficiente
costituisca un freno potente agli investimenti. In questo contesto forse
dobbiamo guardare alla presente crisi epidemiologica come a un’opportunità. Se
risorse straordinarie sono attese, non sarebbe forse sbagliato individuare,
come terreno privilegiato per il loro uso, proprio la giustizia, la cui
rinnovata efficienza sarebbe sicuramente motore di sviluppo.
A proposito
di lentezza dei processi, secondo le recenti statistiche della Cedu dal 1959 al
2019 l'Italia è stata interessata da 2410 procedimenti (peggio di noi Russia e
Turchia) di cui 1843 hanno riscontrato una violazione. Di questi 1197 hanno
riguardato la lunghezza dei processi e 287 il diritto ad un giusto processo.
Sì, come
dicevo il problema resta vivo a livello europeo, sebbene l’Italia abbia avviato
delle riforme e si sia dotata di un meccanismo interno, la legge Pinto, per
dare soddisfazione già in patria a chi abbia subito un processo troppo lungo,
meccanismo, tra l’altro, costosissimo per l’Erario. Il problema non è solo italiano, ma bisogna
riconoscere che per noi esso si presenta con una particolare gravità e, come
dicevo, credo sia meritevole di un’azione prioritaria. Come violazione dei
diritti umani certo la lunghezza eccessiva dei processi non è paragonabile alla
tortura o alla riduzione in schiavitù, ma non va banalizzata. Se la giustizia
non è efficiente, oltre che autonoma, indipendente e credibile, vuol dire che
lo Stato di diritto non funziona bene. Da questo punto di vista devo
registrare, ed è un rilievo positivo, una maggiore consapevolezza dell’opinione
pubblica, che comincia a rendersi conto di come questo problema non possa
semplicisticamente essere ricondotto ad una pretesa – e totalmente indimostrata
– neghittosità dei magistrati, ma sia il frutto di molteplici fattori, che
richiedono interventi complessi ed articolati e un serio impegno da parte dei
decisori politici.
Le correnti
della magistratura sono espressione della libertà di associazione ma è chiaro
che hanno ricoperto un ruolo anomalo nel pretendere posti di rilievo per gli
appartenenti ad esse, tagliando fuori molto spesso coloro che non ne fanno
parte. È d'accordo con questa sintesi? E come porre rimedio?
La sintesi
è dolorosa da ascoltare, ma sembra difficilmente contestabile. Le correnti
hanno rappresentato e rappresentano un potente mezzo di dialogo e di crescita
culturale della magistratura. Personalmente ho partecipato a diversi convegni
su vari temi organizzati da Unità per la Costituzione, Magistratura
Indipendente e Magistratura Democratica, e devo dire che in queste occasioni ho
sempre apprezzato il rigore metodologico, l’apertura mentale e l’assenza di
spirito settario degli organizzatori. È triste che oggi si presentino le
correnti come fenomeni quasi criminali.
Come è potuto succedere?
È duro da
accettare, ma quello che mi pare sia mancato è una cosa molto semplice, che
dovrebbe essere intuitiva per chi ha scelto di abbracciare la carriera di
magistrato, e cioè la necessità di comportarsi sempre ed esclusivamente al
servizio dell’istituzione cui si appartiene – che sia un ufficio giudiziario o
il CSM – e quindi dell’interesse superiore al cui presidio la stessa
istituzione è posta. La Costituzione lo dice con parole non difficili da capire
all’art. 54, molto citato in questi giorni, secondo cui “I cittadini cui sono
affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed
onore”. C’è stato un corto circuito. Che le correnti animino, all’interno dell’ANM,
dinamiche paragonabili a quelle politiche o sindacali non è cosa che possa
scandalizzare. Che le elezioni interne all’Associazione riflettano sensibilità,
anche politiche, diverse, mi sembra assolutamente normale. È giusto che gli
organi direttivi dell’ANM siano lo specchio di queste diverse sensibilità
perché si trovi una sintesi da far valere, appunto, sul piano dell’azione
dell’ANM. Mi sembra pure fisiologico che i magistrati eleggano al CSM colleghi
con i quali avvertono una sintonia sul modo di concepire il lavoro del
magistrato e, perché no, anche valoriale. Non mi scandalizza, in questo
contesto, il ruolo elettorale delle correnti. Qui, però, la normalità finisce.
E cosa inizia invece?
Una volta
eletto al CSM, un magistrato non può comportarsi come il componente di un
organo politico o sindacale, le cui scelte e prese di posizione non possono
prescindere, senza conseguenze, dalle determinazioni della centrale politica o
sindacale di riferimento. Il CSM è un
organo di garanzia, posto a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della
magistratura, il che vuol dire che i suoi componenti hanno il dovere, non
diversamente dai giudici della Corte costituzionale, di non richiedere e di non
accettare istruzioni da alcuno. Un componente del CSM “eterodiretto” è una
bestemmia istituzionale. È dovere di ciascun membro del CSM di seguire nelle
sue determinazioni null’altro che scienza e coscienza, al servizio
dell’interesse superiore a presidio del quale l’istituzione è posta.
E la riconoscenza verso coloro che
hanno facilitato l’elezione?
Vi è il
“dovere d’ingratitudine” che è proprio dei componenti degli organi di garanzia,
anche qui, proprio come i giudici della Corte costituzionale, i quali sono tenuti ad essere “ingrati”,
cioè ad essere indipendenti, rispetto
alle autorità che li hanno eletti o nominati. Non si può pensare che se il meccanismo di
nomina in organo di garanzia è elettivo l’attività dell’organo diventi
politica. Questo è il corto circuito cui ho fatto riferimento. Anche i giudici
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono eletti (dall’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa), ma nessuno di loro si sognerebbe di
orientare le proprie determinazioni tenendo conto delle preferenze dei loro
elettori. Come dicevo, sono concetti di una semplicità estrema, ed è desolante che
il loro senso si sia smarrito.
I rimedi?
Mi
piacerebbe poter rispondere con un attestato di fiducia nella capacità della
magistratura di ripudiare queste pratiche degenerative con un soprassalto di dignità
e con un’adesione spontanea e convinta all’invito accorato che è stato rivolto
a tutti noi dalla cattedra più alta del nostro Paese, quella del Presidente
della Repubblica. Forse però questo non
è sufficiente, se il costume che è emerso dalle vicende che stiamo commentando
ha potuto affermarsi, e persino acquisire caratteri di apparente normalità, pur
in presenza di un codice etico, adottato dall’ANM, che in modo piuttosto chiaro
prevede all’art. 1 che “Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di
attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si
ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di
imparzialità.”
E un intervento legislativo potrebbe
essere risolutivo?
Sarei
molto cauto quanto a un possibile intervento legislativo. Troppo forte sarebbe
la tentazione di utilizzare l’occasione per limitare l’autonomia e
l’indipendenza della magistratura. A mio
sommesso giudizio occorre che l’ANM prenda una posizione chiara nello
stigmatizzare come assolutamente impropri e censurabili tutti i comportamenti –
da chiunque posti in essere - volti a condizionare l’autonomia dei membri del
CSM, i quali nell’esercizio delle loro importanti funzioni debbono rispondere
solo alla Costituzione, alla legge e alla loro coscienza. La dimensione etica
va forse poi curata un po’ meglio nella fase del tirocinio dei nuovi
magistrati. Occorre avere la consapevolezza che la legittimazione della
magistratura, e quindi la sua credibilità, riposa su due pilastri, che sono da
una parte la preparazione tecnico-giuridica, accertata in modo obiettivo, e,
dall’altra, l’assoluta integrità personale di ciascun appartenente all’ordine
giudiziario. L’una senza l’altra non è assolutamente sufficiente.
Non c’è altra via che il rigore dei
comportamenti dunque?
Ciascun
magistrato deve avere ben presente che l’autonomia e l’indipendenza che la
Costituzione gli accorda non solo non sono un privilegio personale, ma
implicano il dovere di un’assoluta severità con sé stessi. Gli utenti della giustizia
hanno il diritto di pretendere che chi è chiamato a decidere le loro
controversie sia assolutamente libero di farlo secondo scienza e coscienza. La
libertà e l’indipendenza del magistrato vanno dunque vissute come un dovere.
Sono concetti la cui appartenenza al patrimonio morale di tutti coloro che
entrano in magistratura non può essere presunta, e che vanno quindi illustrati
ai giovani magistrati in modo sistematico.
Non Le
sembra che il dott. Palamara sia divenuto un facile capro espiatorio dei mali
endemici che attraversano la magistratura italiana?
La prego
di scusarmi, ma preferisco non esprimermi sulla vicenda specifica del dott.
Palamara, anche perché la Corte di cassazione, alla quale appartengo, potrebbe
essere chiamata ad occuparsene. Ho già detto, affrontando la questione nei suoi
termini generali, che purtroppo non siamo di fronte ad episodi isolati. Ne
viene di conseguenza la necessità di una presa di coscienza e di una
riflessione a largo raggio, che coinvolga tutti i magistrati, nessuno escluso.
Il CSM ha
bisogno di essere riformato?
Come
dicevo, sarei cauto nell’auspicare un intervento legislativo. Il problema deve
essere risolto sul piano del costume e dei comportamenti. Non vorrei indulgere
alla retorica della “maggioranza sana” del corpo dei magistrati, ma è un fatto
che mediamente si può contare sull’integrità di chi è chiamato a svolgere
funzioni giudiziarie. Credo che si possa essere moderatamente ottimisti quanto
alle possibilità di successo di un’azione di richiamo ai valori etici della
professione, purché vi sia fermezza, a partire dall’ANM e nell’agire quotidiano
di tutti i magistrati, nello stigmatizzare comportamenti impropri, e nel
dissipare ogni dubbio sull’inaccettabilità di ogni tentativo di condizionamento
– comunque motivato – di chi sia chiamato a prendere decisioni sulla carriera
dei colleghi, specie nel CSM, decisioni nelle quali l’appartenenza di chi le
prende - o di chi ne è destinatario - a
questa o a quella corrente non dovrebbe avere alcun peso. Il solo sospetto che
le decisioni sui magistrati vengano prese per ragioni diverse dal merito toglie
evidentemente credibilità e autorevolezza all’istituzione. Detto questo, quanto
alle possibili riforme bisogna essere rispettosi delle prerogative del
Parlamento che, nei limiti fissati dalla Costituzione, si determinerà secondo
le proprie valutazioni.
Volendo entrare più nel merito delle
possibili proposte in campo per riformare il Csm?
Personalmente
non credo siano auspicabili modifiche quanto al rapporto numerico tra membri
togati e laici del CSM o ai procedimenti disciplinari. Quanto ai meccanismi
elettivi della componente togata, mi pare difficile garantire la libertà degli
eletti modificando il sistema elettorale. La soluzione è nell’affermazione,
prima di tutto nelle coscienze degli eletti e degli elettori, dell’idea, cui
accennavo un istante fa, del “dovere d’ingratitudine” che grava sugli eletti,
un’idea che forse non è stata fino ad oggi veramente recepita, ma che è
essenziale per il buon funzionamento delle istituzioni di garanzia.
In una
intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un
quarto potere, ormai indipendente dalla magistratura. È d'accordo?
Le
opinioni del Prof. Cassese sono sempre autorevoli. Non si può negare che il corpo
dei pubblici ministeri, nettamente minoritario all’interno della magistratura,
abbia per forza di cose una più netta visibilità rispetto alla componente
giudicante. Nemmeno ci si può nascondere che questa maggiore visibilità abbia
costituito in qualche caso una potente tentazione per qualche magistrato
attirato dalle sirene della politica. Detto questo, per quella che è la mia
esperienza, mi sono fatto l’idea che la stragrande maggioranza dei pubblici
ministeri italiani condivide pienamente la cultura della giurisdizione che è
propria dell’intera magistratura, e che quindi ci si possa attendere da loro
comportamenti equilibrati e garantistici rispetto ai diritti individuali non
diversi da quelli dei giudici.
A fine
luglio l'Aula della Camera discuterà di separazione delle carriere tra pm e
giudici. Lei sarebbe d'accordo su questa riforma?
La mia
opinione vale ciò che vale, cioè nulla, ma da quanto dicevo prima è evidente
che la mia preferenza è nel senso della conservazione della tradizione italiana
di unicità della carriera dei magistrati, che siano giudicanti o del pubblico
ministero, proprio perché un pubblico ministero che partecipi pienamente della
cultura della giurisdizione garantisce meglio a mio sommesso giudizio i diritti
individuali.
L’Unione delle Camere Penali non
sarebbe d’accordo.
So che i
penalisti italiani non sono d’accordo. L’argomento principale che viene portato
a sostegno di questa idea, e cioè che la comunanza di carriera renda più
“pesante” agli occhi del giudice l’opinione del pubblico ministero rispetto a
quella del difensore mi pare che provi troppo. Da una parte ci sono i tanti
casi di assoluzioni pronunziate dai giudici in presenza di richieste di
condanna del pubblico ministero. Dall’altra, a portare l’argomento alle estreme
conseguenze, occorrerebbe allora provvedere a tante separate carriere di
magistrati per quanti sono i gradi di giudizio, per evitare che il giudice
superiore sia sempre portato a confermare, per la comunanza di carriera, la
decisione di quello del grado precedente.
Il nostro
giornale ha reso nota la trascrizione di una conversazione tra Silvio
Berlusconi e il dott. Amedeo Franco. Che idea si è fatto sulla vicenda?
Anche
questa è una vicenda sconcertante, che come dicevo mi pare debba essere ancora
chiarita nei suoi precisi contorni. Un aspetto delicato è costituito dal fatto
che il giudice Franco non è più tra noi e quindi non può replicare a quanto si
dice di lui. Detto questo, credo non si possa non essere d’accordo con quanto
osservato dall’ex Primo Presidente della Corte di cassazione, Ernesto Lupo, il
quale ha fatto notare come, al di là degli aspetti penali, il comportamento di
un giudice che violi il segreto della camera di consiglio sia sempre
disdicevole.
Qualche
giorno fa abbiamo ospitato un
intervento del professor Andrea Pugiotto sull'ergastolo ostativo. Qual è il Suo
giudizio sul tema?
Avendo
partecipato alla decisione della Cedu, nel caso Marcello Viola c. Italia,
mi limito a dire che, come emerge dal testo della sentenza, alla quale è
annessa una sola opinione dissenziente, e che è stata adottata a maggioranza
con sei voti contro uno, ero tra i giudici della maggioranza. Come vede, a
differenza di quanto avviene nel diritto processuale italiano, per le sentenze
della Corte di Strasburgo si può legittimamente sapere se una decisione è stata
presa a maggioranza e quale fosse la posizione dei singoli giudici. Detto
questo, devo fermarmi, non essendo opportuni commenti da parte mia su una
decisione giudiziaria alla quale ho preso parte. In termini generali, è vero
che a partire dal caso Vinter c. Regno Unito la Corte di Strasburgo ha
teorizzato il c.d. “diritto alla speranza”. Questo però non significa che la
pena della reclusione perpetua sia in sé contraria alla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo. Ciò che la Corte dice è che una detenzione che si prolunghi
oltre la sua necessità penologica, quando cioè non vi siano più ragioni per
trattenere il condannato in carcere, entra in contrasto con l’art. 3 della
Convenzione, che vieta la tortura e le pene e trattamenti disumani o
degradanti.
Durante l'emergenza covid alcuni magistrati di sorveglianza hanno concesso
la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti dell'alta sicurezza e del 41bis.
Molte le polemiche che hanno portato anche all'intervento del Ministro Bonafede
con un decreto ad hoc. Crede che le polemiche siano state strumentali e nate
nelle sedi sbagliate, ossia i salotti televisivi?
In tema di
giustizia, specialmente quando si tratta di temi securitari altamente sensibili
politicamente, il rischio di strumentalizzazioni è sempre elevato, così come
quello di un’interessata distorsione dell’informazione. Detto questo, non sarò
io a dirmi in favore di una compressione della libertà d’informazione, ossigeno
della democrazia.
Nel suo
ultimo speech annuale quale
Presidente della Cedu ha detto che gli uomini e le donne della sua generazione “hanno
avuto per molto tempo la consapevolezza che la democrazia, una volta stabilita,
non può essere annullata. Ma, come alcuni studiosi hanno osservato, stiamo assistendo
a un fenomeno di disillusione sociale, che potrebbe portare alla
deconsolidazione democratica”. Possiamo approfondire?
Ho voluto
semplicemente dire che il sistema europeo di protezione dei diritti umani,
messo in piedi con la Convenzione firmata a Roma nel 1950, è una efficace
polizza di assicurazione contro possibili derive autoritarie, e che quindi è un
bene prezioso da preservare. Ciò anche perché non è più possibile dare per
scontato il perpetuarsi della democrazia, come invece la mia generazione aveva
forse ingenuamente creduto.Tentativi di erosione delle basi della democrazia
sono sotto gli occhi di tutti. Ho ricordato le sentenze della Corte di
giustizia dell’Unione europea a difesa dell’autonomia della magistratura come
condizione essenziale della democrazia liberale, precondizione della
partecipazione all’Unione, in risposta a riforme chiaramente ispirate a idee
diverse.
A cosa si riferisce?
Si è
potuto parlare di “democrazia illiberale” o anche di legittima “dittatura della
maggioranza”. Sono idee del tutto incompatibili con il concetto di democrazia
pluralistica teorizzata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e che è
patrimonio comune dei 47 Stati che, con la Convenzione del 1950, hanno voluto
mettere in piedi la garanzia collettiva dei diritti fondamentali della persona
umana. La crisi economica, aggravata dal Covid-19, la percezione del fenomeno
migratorio dei nostri tempi come minaccia d’invasione e altre difficoltà, come
la sensazione d’insicurezza prodotta dal dilagare della criminalità, possono
condurre al ripiegamento degli Stati su sé stessi, alla violenza e anche a
derive autoritarie, quando ad alcuni, se non a molti, appaia conveniente
barattare quote di libertà con quote di sicurezza. È una tentazione a mio
giudizio pericolosa, perché l’autoritarismo conduce alla guerra e ad altri
disastri. Siamo quindi grati alla lungimiranza dei padri della Convenzione
europea, e lavoriamo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo continui a
guidare i giudici – e anche i legislatori – nazionali nell’efficace tutela dei
diritti umani preservando la democrazia pluralistica, e quindi nel quadro dello
Stato di diritto e nel rispetto delle minoranze e delle opinioni contrarie a
quelle di chi detiene il potere.
Da oltre 60
anni la Corte contribuisce
all'armonizzazione delle norme europee in materia di diritti e libertà. A che
punto siamo?
Con la
Convenzione, settant’anni fa, e con la Corte, che come lei ricorda ha
cominciato a lavorare più di sessant’anni fa, gli Stati europei hanno messo in
piedi un cantiere che non dovrà necessariamente vedere la fine, giacché l’opera
rimarrà incompiuta per definizione, dato che la giurisprudenza della Corte di
Strasburgo è chiamata a confrontarsi con una società in continua evoluzione,
che richiede quindi una lettura dei diritti convenzionali sempre al passo con i
tempi. Parlo della dottrina dello “strumento vivente” che la Corte ha
introdotto nel 1978, non senza contrasti, con la sentenza Tyrer c. Regno
Unito. Detto questo, i progressi in materia di tutela di diritti umani
compiuti grazie alla giurisprudenza della Corte sono immani. Il dovere degli
Stati contraenti di riformare i loro ordinamenti giuridici nei casi in cui le
sentenze della Corte ne rivelino la tensione con la Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo ha condotto ad innumerevoli cambiamenti nella legislazione degli
stessi Stati. Sarebbe impossibile anche tentare un elenco in questa risposta.
Consiglierei a tutti coloro che siano curiosi di saperne di più di consultare
il sito del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze
della Corte europea dei diritti dell’uomo: https://www.coe.int/en/web/execution/home
.
Per quanto riguarda il nostro Paese?
Per quanto
riguarda l’Italia mi limiterei a ricordare tre casi: Torreggiani, del
2013, che ha dato luogo, tra l’altro, all’introduzione nel sistema italiano di
ricorsi posti a disposizione di detenuti vittime di fenomeni di
sovraffollamento carcerario, Cestaro, del 2015, relativo alle violenze
poliziesche perpetrate durante il G8 di Genova del 2001, in seguito al quale il
Parlamento italiano ha adottato, dopo una lunga attesa, la legge contro la
tortura del quale il nostro Paese era sprovvisto e Oliari, sempre del
2015, sulle coppie omosessuali, che ha indotto il nostro Paese a dotarsi,
finalmente, di un quadro giuridico per le unioni civili, la legge Cirinnà.
Gli esempi potrebbero essere moltissimi, e dimostrano la vitalità del sistema e
come gli Stati finiscano nella stragrande maggioranza dei casi per seguire le
indicazioni della Corte, così realizzando un progresso effettivo nella tutela
dei diritti umani.
Ma qualcuno non gradisce il lavoro
della Corte.
So bene
che in certi ambienti europei vi è insofferenza verso quello che viene
considerato “l’attivismo” della Corte di Strasburgo. Tentativi di limitare il
raggio di azione della Corte vi sono stati in passato, finora senza successo, e
non si può escludere che ve ne possano essere in futuro. Dal mio punto di vista un ridimensionamento
del sistema europeo di tutela dei diritti umani sarebbe pernicioso per il
nostro continente. Sono, ancora una volta, ottimista. Il mio atteggiamento
positivo deriva da una constatazione, quella della penetrazione dei valori
convenzionali nella giurisprudenza dei giudici nazionali - veri protagonisti
dell’applicazione della Convenzione - che li hanno ormai interiorizzati nelle
loro coscienze, anche in Italia. Certo,
difficoltà di coordinamento e contrasti non mancano, ma resta irreversibile,
credo, la scelta di far vivere la Convenzione negli ordinamenti interni, a
tutela e garanzia dei diritti fondamentali di tutti noi.
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