Paolo Villari: «Sì alla riapertura ma coordinata a livello nazionale»

di Valentina Stella Il Dubbio 23 aprile 2020

In questo periodo scienza e politica si stanno continuamente confrontando per bilanciare gli interessi salute, economia, libertà individuali per far ripartire il Paese nelle migliori condizioni. Ne parliamo con Paolo Villari, direttore del dipartimento di Sanità pubblica e di Malattie Infettive dell'Università La Sapienza di Roma.
Mascherine e distanziamento fisico fino a quando non avremo il virus. Unica soluzione?
Sono d'accordo su questo: fino a quando non avremo un vaccino è l'unica misura da adottare per evitare l'esposizione al virus. È indubbio che la riapertura debba esserci ma modulata. E occorre un coordinamento nazionale: sarebbe sbagliato se una regione si muovesse in un senso e un'altra regione in un altro senso.
Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca si dice pronto a chiudere i confini della sua regione.
Credo abbia fatto una affermazione provocatoria: intendeva dire che non possiamo decidere regione per regione.
Quali potrebbero essere gli altri criteri scientifici per gestire la Fase 2?
Due sono le direttrici per una graduale riapertura: la prevenzione attraverso il mantenimento del distanziamento
interpersonale e poi l'isolamento chirurgico dei nuovi contagi mediante un capillare monitoraggio dei focolai.
Possiamo tranquillizzarci alla luce dei nuovi dati forniti sui contagi e sui ricoveri?
Che l'andamento epidemiologico stia migliorando è un dato di fatto. Significa che le misure di lockdown che sono state messe in campo hanno sortito effetti. Tuttavia la situazione non è risolta e ci sono differenze tra regioni e regioni: alcune sono più sfortunate perché l'epidemia è cominciata prima e hanno una situazione epidemiologica più complessa delle altre.
Secondo lei sono stati commessi degli errori da parte del nostro governo?
Secondo me è stato fatto il possibile. Noi siamo stati sfortunati come Paese nel senso che siamo stati i primi ad avere un focolaio autoctono senza avere un legame apparente con la Cina. Ci siamo mossi per primi e con gradualità. Certo col senno di poi si può dire che qualcosa poteva essere fatta prima.
In questo periodo sentiamo varie teorie sul virus. Le persone hanno perso fiducia nella scienza.
Siamo dinanzi ad un fenomeno nuovo che stiamo ancora studiando. Certo, ai cittadini può dar fastidio che gli esperti vadano nelle trasmissioni televisive a litigare, questo non
fa un favore alla scienza.
Lei crede che la App Immuni possa servire?
Sicuramente può essere utile ma dobbiamo ancora capirne bene i meccanismi: deve essere interpretata e guidata dagli esperti, da persone. Può aiutare a tracciare i contatti e gli eventuali contagi ma poi occorre l'approccio della sanità pubblica.

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