La storia della sentenza dj Fabo
Valentina Stella dubbio 14 ottobre 2024
Il 28 febbraio 2017 Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, si presentava presso i Carabinieri di Milano dichiarando che, nei giorni immediatamente precedenti, si era recato in Svizzera per accompagnare presso la sede della Dignitas Fabiano Antoniani, che lì aveva programmato e poi dato corso al suo suicidio assistito. Noto a tutti come dj Fabo, dopo una serata in un locale di Milano, il 13 giugno 2014 fu vittima di un grave incidente che gli cambiò improvvisamente la vita in modo irreversibile. Fabiano diventò cieco e tetraplegico. Nel gennaio 2017 registrò un video indirizzato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel messaggio letto da Valeria, la sua fidanzata, Fabo sottolineava che «in questi anni ho provato a curarmi, anche sperimentando nuove terapie. Purtroppo senza risultati. Da allora mi sento in gabbia». Ma assicurava: «Non sono depresso ma non vedo più e non mi muovo più». «Signor presidente - concludeva Valeria - sappiamo che non spetta a lei approvare le leggi. Le chiediamo però di intervenire affinché una decisione sia presa, per lasciare ciascuno libero di scegliere fino alla fine». In seguito all’appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dopo il terzo rinvio della legge sul testamento biologico in Italia, dj Fabo decise di recarsi in Svizzera, con il sostegno dell’Associazione Luca Coscioni, dove morì in una clinica il 27 febbraio 2017, mordendo un pulsante per attivare l'immissione del farmaco letale. Il suicidio assistito era avvenuto dopo una visita medica e psicologica, servita a confermare la sua volontà di morire. Dopo anni di terapie senza esito infatti aveva maturato la precisa consapevolezza di voler porre fine alla sua vita: «Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia». Fu lui stesso, nel suo addio su Twitter, a descrivere con parole nette la situazione: «Sono finalmente arrivato in Svizzera, e ci sono arrivato purtroppo con le mie forze e non con l'aiuto dello Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e la ringrazierò fino alla morte». Cappato veniva così iscritto nel registro degli indagati da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. All’udienza del 17 gennaio 2018, la pubblica accusa chiedeva la assoluzione dell’imputato o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.. Stessa richiesta veniva avanzata anche dalla difesa di Marco Cappato. All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte di Assise di Milano pronunciava una ordinanza con cui sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sostenendo un duplice profilo di incostituzionalità della norma: da un lato, infatti, i giudici milanesi chiedevano alla Corte costituzionale di valutare la compatibilità con la Costituzione e la Cedu del reato di istigazione e aiuto al suicidio «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio»; dall’altro lato, poi, si argomentava l’incostituzionalità della norma sotto il profilo sanzionatorio, per l’equiparazione tra condotte di istigazione e condotte di mera agevolazione materiale. L’udienza davanti alla Corte Costituzionale si teneva il 23 ottobre 2018. All’esito dell’udienza, la Corte Costituzionale, rilevato che «l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti», al fine di «consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina» decideva di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 c.p. all’udienza del 24 settembre 2019. La Corte costituzionale si è quindi pronunciata sulla questione dapprima con ordinanza n. 207 del 2018, con cui ha riconosciuto l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio per il suo contrasto con la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie; secondo la Consulta, tale diritto fondamentale si fonda sul combinato disposto tra gli artt. 3, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione. L’incostituzionalità della norma, pur riconosciuta, non è stata dichiarata immediatamente dalla Corte, che ha optato per il rinvio della decisione ad una successiva udienza fissata a quasi un anno di distanza dalla prima, in modo da consentire al legislatore di intervenire per sanare il vulnus di costituzionalità e, al contempo, garantire un’efficace e ponderato bilanciamento tra i vari interessi in gioco. A distanza di un anno, considerata l’inerzia del legislatore e a disciplina invariata, la Corte costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 242 del 2019, con cui ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di aiuto al suicidio «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». La Corte d’Assise di Milano, infine, è stata chiamata a confrontarsi con il caso concreto sottoposto al suo giudizio alla luce della disciplina dell’aiuto al suicidio rimaneggiata dalla Corte costituzionale. L’imputato Marco Cappato fu prosciolto con la formula «perché il fatto non sussiste», con questo ponendo ragionevolmente fine alla vicenda relativa al caso DJ Fabo.
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