Intervista a Fabrizio Filice

 Valentina Stella dubbio 11 ottobre 2024

A differenza di quanto espresso dal professore Vittorio Manes qualche giorno fa su questo giornale a proposito del ddl che mira ad inserire la vittima in costituzione, per Fabrizio Filice, giudice del tribunale di Milano e componente esecutivo di Md, «l’apertura del nostro ordinamento a maggiori spazi di partecipazione e tutela delle persone offese nel processo penale non deve necessariamente essere vissuta come una drammatica contrapposizione con le garanzie degli indagati, potendo anzi costituire un’utile occasione di evoluzione del diritto penale, nel senso di un maggiore equilibrio dei diritti e delle garanzie di tutte le persone coinvolte in un reato». Facciamo presente comunque che diversi giuristi auditi hanno criticato la proposta per gli effetti  - dice Filice - distorsivi sul processo penale. «Il pregiudizio che sta a monte di questa critica consiste in una implicita equiparazione della prospettiva vittimaria con la tendenza al panpenalismo, quando in realtà è piuttosto vero il contrario. La vittimologia rappresenta il principale formante teorico di contrapposizione a un diritto penale illiberale, populista e politicamente orientato, in quanto muove dalla critica della pretesa punitiva dello Stato in quanto tale, perché esercitata istituzionalmente su un piano di pura formalità giuridica mentre le conseguenze di un reato, soprattutto (ma non solo) di un reato violento o che abbia cagionato la morte di un innocente, riversano tutti i loro effetti, pulsanti e vitali, sulle persone che ne sono coinvolte: l’autore del reato, la vittima diretta e le vittime indirette, come i congiunti della persona uccisa». Per la toga «la pretesa punitiva statale classica ignora completamente quelle vite e nemmeno si pone il problema di rispondere ai loro bisogni, mentre la vittimologia afferma che il fine del diritto penale non può essere solo quello di punire, perché in questo modo finisce con il punire tutti: i colpevoli, condannati a un sistema carcerario inumano e insostenibile, e le vittime, stigmatizzate per sempre come tali e nei cui confronti l’opinione pubblica è mossa a passare con estrema facilità dalla solidarietà iniziale alla calunnia. Punizione non è riparazione, e le persone offese da un reato lo sanno bene». Però non c’è dubbio che la vittima ha già guadagnato un posto sempre più protagonistico, dentro e fuori dalle aule. «Se ciò è avvenuto è proprio perché la vittimologia è già stata gradualmente riconosciuta come un valore costituzionale a livello europeo e, come tale, è permeata nel nostro ordinamento attraverso le cessioni di sovranità, previste in Costituzione, nei confronti delle fonti sovranazionali. Per questa via sono state recepite nel nostro ordinamento la Convenzione di Istanbul del 2011 e la direttiva europea del 2012. E, recentemente,  si sono aggiunte altre fonti sovranazionali importanti, che implicheranno nuove trasformazioni del nostro diritto penale, come la raccomandazione del COE del 2023 e la nuova direttiva europea del 2024. Queste fonti, peraltro, oltre a richiedere la valutazione individualizzata delle esigenze e della vulnerabilità della vittima, contengono un costante richiamo alla giustizia riparativa, a chiarire come i diritti reclamati dalle persone offese non siano mai orientati in senso meramente punitivo ma in un senso altro: quello della verità, della riparazione e della riconciliazione degli equilibri». Senza modificare la Costituzione quale la strada per dare alle vittime il ristoro che chiedono? «Per prima cosa le persone offese da un reato hanno bisogno di capire, hanno bisogno di verità. E quindi di un processo in cui la scelta delle imputazioni non sia strategicamente orientata, in base al criterio delle maggiori probabilità di successo, da un pm concepito come una parte contrapposta, in termini para-privatistici, alla difesa.  E dopo la verità, le persone offese hanno bisogno di cura, di essere aiutate a elaborare quanto accaduto. La stessa cura di cui ha bisogno, su una retta che decorre parallela, l’autore del reato: di essere messo nella condizione di capire e di valutare la propria condotta e le conseguenze che essa ha avuto sulle vite degli altri», conclude Filice.

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