Intervista a Mazza
Valentina Stella Dubbio 10 ottobre 2024
La condanna in primo grado a otto mesi per i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d'ufficio, non avendo depositato atti favorevoli alle difese nel processo Eni/Shell-Nigeria, ci porta ad interrogarci sulla cultura del pubblico ministero. Ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca.
Cosa pensa della condanna dei due pm milanesi?
Difficile rispondere sulla base del solo dispositivo di condanna, senza conoscere la motivazione e soprattutto gli atti del processo. Ma accetto la sua provocazione intellettuale. Diciamo che se i fatti materiali, anche a prescindere dall’elemento psicologico e dalla colpevolezza, venissero accertati in via definitiva, questa sarebbe la più plateale smentita della tanto decantata cultura della giurisdizione del pm. Stiamo parlando, infatti, di esponenti di spicco della seconda Procura d’Italia impegnati nel processo a carico dei dirigenti dell’Eni, la più grande azienda pubblica. Come sostiene Nello Rossi, storico esponente di Magistratura democratica, il ruolo del pm è caratterizzato da una vera e propria “cultura della discrezionalità” non solo dell’azione penale, ma anche della investigazione. Malgrado la retorica imperante lo descriva come organo di giustizia assimilabile al giudice, parte imparziale interessata solo alla ricerca della verità, il pm mostra, nel corso delle indagini preliminari, il suo vero volto di investigatore partigiano, impegnato in scelte discrezionali che riguardano anche la selezione dei materiali raccolti mediante la sapiente gestione dei fascicoli, in base a regole che rasentano gli arcana imperii. Questo è un dato di esperienza ormai assodato.
Se arrivasse a sentenza definitiva, si tratterebbe però di un caso isolato. Lei ricorda altri magistrati condannati per aver nascosto prove utili alla difesa?
Condannati no, o quantomeno non lo ricordo, ma sono innumerevoli i casi delle prove nascoste per effetto della suddivisione delle maxi indagini in mille rivoli processuali, senza possibilità per la difesa di avere ben chiaro il quadro d’insieme. Se l’omesso deposito di atti di indagine integra una incontestabile patologia, il gioco della composizione e scomposizione dei procedimenti rientra, invece, in una discrezionalità ritenuta “fisiologica” che si pone, però, agli antipodi del fair play processuale di cui si vorrebbe accreditare la figura del pm. La selezione e il conseguente occultamento alla difesa delle informazioni ottenute nel corso delle indagini passano proprio attraverso la frammentazione dei procedimenti e il mancato deposito degli atti nei relativi fascicoli. Di fronte a questi fenomeni la difesa è disarmata perché non ha la possibilità di conoscerli. Forse sarebbe il caso di rivedere alcune previsioni del codice che vengono invocate a copertura di tali scelte discrezionali e incontrollabili, come gli art. 130 e 130-bis norme att. c.p.p.
L’art. 358 c.p.p. prevede che il pm cerchi anche prove a discarico dell’indagato. Dalla sua esperienza questo avviene?
Direi proprio di no, il pm può al limite raccogliere le prove a discarico in cui si imbatte casualmente nel corso delle indagini. Non potrà mai verificare al tempo stesso l’ipotesi di colpevolezza e quella di innocenza, sarebbe una pericolosa schizofrenia investigativa. È coerente con il processo accusatorio che il pm svolga un ruolo schiettamente di parte, è una parte partigiana che incontra il solo limite di non nascondere prove utili alla difesa che gli capitino sul tavolo, ma che certo non può essere onerato di una supplenza difensiva.
Potrebbe citarci dei casi in cui il pm - si passi il termine – si ‘innamora’ della sua tesi, è vittima di una visione a tunnel, che non gli permette di guardare altrove cercando a tutti costi di far condannare un innocente?
Credo che sia la prassi quotidiana, ma ripeto è fisiologico e coerente con un sistema accusatorio che non può più reggersi sulla figura dell’accusatore-giudice tipica del codice Rocco. La separazione delle funzioni deve essere netta, la dialettica processuale impone ruoli distinti e contrapposti fra le parti, in condizioni di parità dinanzi al giudice terzo che dovrebbe essere separato anche sul piano ordinamentale dal pm.
Nonostante Falcone venga citato molto spesso, c’è una sua frase però che non si sente citata spesso: “attenzione”, diceva rivolto ai magistrati, “a non confondere i processi con le crociate”. Aveva ragione?
La laicità dell’accusa è un valore democratico. Il pm non deve mai agire per interesse personale, ma con il necessario distacco e disinteresse per il risultato del processo. In quest’ottica si colloca anche la restrizione del potere d’appello. Proprio nell’impugnazione di merito si sono infatti registrate le peggiori personalizzazioni, favorite anche dalla possibilità che il pm di primo grado si faccia applicare al giudizio d’appello.
Non c’è però il rischio di scambiare l’apparenza con la sostanza? Se non erro mancano statistiche sulle richieste di archiviazione e relativo accoglimento.
La discrezionalità dell’azione, e quindi anche dell’inazione, è un dato di fatto, sebbene rappresenti ancora un numero oscuro che andrebbe studiato. Il potere d’accusa è immenso, ma manca del tutto di responsabilità. In una democrazia non può esistere un potere senza responsabilità, altrimenti si rischia l’arbitrio. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che dopo la riforma Cartabia ogni Procura deve definire su base locale i criteri di priorità nell’azione penale, tenendo conto dei criteri generali stabiliti dal Parlamento con una apposita legge che non è stata ancora approvata. Questo rapporto fra Parlamento e Procure dovrà prima o poi trovare compimento e allora si porrà con forza il tema della natura politica dell’attuazione a livello locale di scelte politiche nazionali. L’azione discrezionale, improntata a criteri di priorità, implica scelte politiche che un Procuratore della Repubblica non potrebbe compiere senza assumersi responsabilità, appunto, politiche quantomeno nei confronti del Parlamento che gli ha dettato le direttive di ordine generale.
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