Intervista a Vittorio Manes sul suo nuovo libro

Di Angela Stella il Riformista 6 maggio 2022

Dal 5 maggio è in libreria il nuovo saggio di Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all'Università di Bologna e avvocato, dal titolo Giustizia mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo (Il Mulino, pagine 168, euro 15). Lo scenario dal quale parte l'autore è quello di una "giustizia penale diventata spettacolo", dove la cronaca dei processi ha lasciato sempre più spazio al "voyeurismo giudiziario". Ormai,  descrive Manes, la rappresentazione fattuale delle indagini e dei processi soccombe allo show e all'intrattenimento, in nome dello share, sull'altare del quale viene sacrificata la "nuda verità" del "processo reale". Le distorsioni sono evidenti tanto nella narrazione dei processi quanto  - a monte – nella rappresentazione del crimine. Molto ficcante il parallelismo che l'autore fa, prendendo in prestito un'espressione di Eugenio Raul Zaffaroni: "la criminologia mediatica sta a quella accademica più o meno come le cure degli sciamani stanno alla medicina".

Il problema di questo quadro, a cui Manes dedica il cuore del suo libro, sono le ricadute sui diritti degli indagati e degli imputati, sull'esito del processo, sul diritto dell'opinione pubblica ad essere informata correttamente, sull'intero sistema giustizia. Il testo, ricco di riferimenti a fatti realmente accaduti e corredato da un'ampia bibliografia, offre uno spaccato preoccupante del lavoro di noi giornalisti e della nostra complicità con una parte di magistratura requirente sedotta spesso "dall'ammaliante convinzione che vincere nei cuori della gente può essere più importante che vincere in aula". Ma non tutto è perduto.   Ne parliamo in questa intervista direttamente con l'autore.

 

Professore, Lei scrive che i processi mediatici nel nostro Paese sono una anomalia sistemica. Quali sono le origini di questa degenerazione del racconto giudiziario?

Premesso che la spettacolarizzazione dei processi non è un fenomeno solo italiano, alle sue origini vi è senza dubbio il fatto che, di fronte ad accadimenti che scuotono la coscienza collettiva – come i fatti di reato, specie quando sono particolarmente efferati - la ricerca delle cause, la richiesta di giustizia delle vittime, e la individuazione dei colpevoli suscitano notevole interesse, e sollecitano un istintivo e primordiale “bisogno di punire”. Come si sa, delitti e castighi attraggono e affascinano la collettività. Tutto questo è ben noto, ed ha a che fare con la psicologia del profondo, con l’esigenza di rassicurazione collettiva e di trovare – attraverso la rappresentazione – spiegazioni e risposte tranquillizzanti da parte della comunità.  Ciò che è meno risaputo è che i media non rispecchiano neutralmente i fatti da rappresentare, ma li selezionano secondo le proprie finalità, ossia secondo criteri e logiche guidati dalla tirannia dello share: così, l’interesse cresce spasmodicamente non solo di fronte a determinati reati di “cronaca nera”, ma anche quando i presunti autori sono personaggi pubblici, specie se politicamente impegnati, o le condotte sono oggetto di precise “campagne di moralizzazione” o persino di strumentalizzazione (basti pensare all’affarismo politico-amministrativo o agli scandali finanziari). In ogni caso, denunciare determinati fatti ed al contempo identificare sommariamente i presunti colpevoli garantisce di somministrare al pubblico dramma e catarsi, alimentando – assieme allo sdegno pubblico – l’attenzione e l’audience. Sennonché, tutta l’attenzione si concentra nella fase iniziale del procedimento penale, la fase delle indagini preliminari, dominata dalla ricostruzione accusatoria; e ci si disinteressa di quale sarà poi l’esito finale del processo.

 

I paragrafi 2 e 3 racchiudono le pagine più importanti: elencano le distorsioni sul piano processuale del processo mediatico parallelo. Dall'eclissi della presunzione di innocenza al diritto di potersi difendersi nel contraddittorio delle parti.

Quando un processo entra nell’arena mediatica, ogni suo aspetto ne esce deformato e sfigurato. Anzitutto, l’indagato – che dovrebbe essere costituzionalmente garantito dalla presunzione di innocenza – viene di regola presentato come il presunto reo, quasi come un “colpevole in attesa di giudizio”. Gli effetti sono devastanti: l’indagato subisce una immediata scomunica pubblica, una sorta di degradazione morale e sociale, ed una immediata capitis deminutio che non sarà mai ripristinata o risarcita, neppure se verrà pienamente assolto all’esito del giudizio. Difficile, peraltro, che ciò accada, perché – una volta entrato nell’arena mediatica- ogni aspetto del processo reale subisce delle gravi distorsioni, tutte a scapito della corretta ricostruzione dei fatti e degli indagati.

Anzitutto, sugli spalti dei media il procedimento si tinge di connotazioni moraleggianti, e si smarrisce il confine tra condotte eticamente censurabili, o magari politicamente inopportune, e condotte penalmente rilevanti; nel giudizio mediatico, poi, si perde il confine tra protagonisti e comprimari, o magari semplici spettatori del reato, perché tutti vengono attratti in una sorta di “responsabilità collettiva”; ancora, si offusca la necessità di attribuire la responsabilità penale in base ad un giudizio di effettiva rimproverabilità soggettiva, e non sulla base del canone medievale della responsabilità oggettiva; e sul processo si spandono tanti altri “effetti perversi” – anche sul diritto di difesa - che ho cercato di descrivere nel libro.

 

Lei dedica una parte alla sacralizzazione della vittima nel processo mediatico. La descrive come il nuovo eroe contemporaneo, costruita come tale prima del giudizio a scapito del presunto reo. Tale rappresentazione come deforma il diritto sostanziale?

Così come l’indagato viene presentato con toni colpevolisti, e come presunto reo, la presunta vittima viene presentata e “istituita” come tale, con l’effetto che tale apparirà nell’immaginario collettivo. Così rappresentata e “sacralizzata”, la sua posizione nel processo diventerà quasi intangibile, la sua versione dei fatti sarà considerata la più autorevole ed attendibile, e dalla sua posizione processuale la stessa vittima difficilmente potrà retrocedere, a pena di non doversi smentire pubblicamente. Il tutto, ovviamente, a scapito dell’imputato, che uscirà ancor più sopraffatto dal protagonismo acromegalico della vittima.

 

Poi passa alla figura del pubblico ministero come 'tribuno dei diritti della vittima'. Cosa non funzione nell'operato dell'organo inquirente in relazione alla mediaticità del processo?

La ricerca di attenzione mediatica è una tentazione molto forte, e spesso il pubblico ministero vi cede per ricerca di visibilità personale o perché – a torto o a ragione - ritiene necessario avere l’appoggio dell’opinione pubblica. Si cerca così di accreditare nell’immaginario collettivo la propria ricostruzione dei fatti, che però è frutto solo dell'impostazione accusatoria, e che non ha ancora minimamente considerato le ragioni della difesa. Oltre a corroborare l’immagine colpevolista a scapito dell’indagato, il procedimento si incanala così in una visione a senso unico, monologica, che sarà difficile da correggere.  Peraltro, le stesse attività inquirenti possono essere influenzate negativamente perché l’attenzione mediatica può accreditare una pista sbagliata, o alimentare una confusione nociva alla ricerca corretta dei responsabili.

 

La suggestione mediatica può mettere a repentaglio la serenità del giudice?

A me pare davvero difficile negare che il giudice possa essere fortemente influenzato dalla narrazione mediatica. Nonostante il corredo professionale che dovrebbe immunizzarlo, ben difficilmente la sua imparzialità rimarrà intatta, perché di fronte ad una massiva campagna mediatica chi giudica si sentirà fatalmente chiamato a dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione o dalla parte degli indagati che la vox populi considera già presunti colpevoli. Giudicare in un simile “contesto ambientale” diventa estremamente difficile, e per assolvere ci vuole davvero molto coraggio. I più nocivi effetti perversi della “giustizia mediatica” si registrano, a mio avviso, proprio sul piano della giurisdizione e della sua indipendenza ed autonomia.

 

Da poco è entrata in vigore la norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Come è possibile bilanciare il diritto di cronaca con i diritti delle persone coinvolte da un procedimento penale?

L’attenzione europea su questi temi è il segno di quanto questi problemi siano ormai gravi, e percepiti un po' ovunque con urgenza. La direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza  e il suo recente recepimento nel nostro ordinamento – al di là di talune criticità -  mi sembrano comunque un passo avanti, specie sul piano culturale: il messaggio è che nella fase delle indagini preliminari e sino ad una condanna definitiva le persone non devono essere gravate da un pregiudizio colpevolista, e che i primi garanti e custodi del rispetto della presunzione di innocenza debbano essere i magistrati, inquirenti e giudicanti.

Anche chi si occupa di cronaca giudiziaria dovrebbe prestare attenzione a questi equilibri, bilanciando l’interesse pubblico con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. Per promuove questo atteggiamento “sensibile ai diritti”, si potrebbe pensare ad un sistema di incentivi statali per le testate giornalistiche che dimostrino di rispettare i canoni di una narrazione attenta alla presunzione di innocenza e al rispetto della vita privata e familiare dei soggetti coinvolti, e introdurre una sorta di “rating di legalità” che premi chi si dimostra rights-sensitive.

Ma il “buco nero” resta il mondo dell’infosfera, l’informazione non istituzionale sul web e sui social network: in quest’ambito, solo una lenta operazione di palingenesi culturale può provare a correggere il lessico colpevolista e giustizialista, ormai imperante. Ed è la sfida più difficile.

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