Stati Generali dei Diritti Civili: una società “aperta” conviene

"I diritti non sono un lusso e se vengono violati si ribellano": è questo l’epitaffio sulla scomparsa dei diritti civili nel nostro Paese, elaborato dal professore Stefano Rodotà durante gli Stati generali dei diritti civili, organizzati venerdì e sabato scorsi a Roma dall’Associazione Luca Coscioni e dal Dipartimento di ricerca sociale dell’Università di Roma La Sapienza. Quaranta tra politici, giornalisti, bioeticisti, giuristi e medici si sono chiesti a che punto fossimo, dopo le battaglie degli anni ’70, sulla questione di quelli ormai declassati a ‘temi eticamente sensibili’. Diritto alla salute, all’autodeterminazione, all’equità nell’accesso alle cure, a manifestare liberamente la propria identità sessuale, alla vita indipendente, all’integrazione culturale: si tratta di diritti non pervenuti in Italia – o meglio, ‘negati’ come recita il titolo di due sessioni nella prima giornata di lavori - perché, come ha ricordato Marco Pannella, c’è a monte un problema di Diritto, ossia di violazione sistematica della legalità in uno Stato antidemocratico di stampo criminale. Il leader radicale lo ha spiegato con un esempio molto semplice: la scienza ci ammonisce che il Vesuvio erutterà nuovamente – bisogna stabilire solo quando - e quindi la legge impedisce di costruire case alle falde del cratere, eppure le abitazioni nelle zone ad alto rischio continuano a venir su.
Dunque uno Stato, la cui giustizia penale e civile sta collassando, che non riesce a far rispettare le sue stesse leggi e che per di più viene condannato dalla Corte di Strasburgo per le sue violazioni di diritto. Nonostante la nostra Carta Costituzionale, sempre invocata dal Presidente Napolitano ma mai nelle sedi opportune, lo Stato italiano permette palesemente e impunemente che i detenuti subiscano pestaggi nelle carceri da parte degli agenti, che le persone vadano a morire assistite come esuli in Svizzera, che genitori paghino anche 100 mila euro per cicli di fecondazione eterologa in Spagna, che i malati e i disabili minaccino la morte per ricevere livelli essenziali di assistenza, che ancora persiste nelle aule parlamentari la questione omofobia. In questo panorama i diritti diventano certo un lusso per pochi: per coloro che hanno i soldi per aggirare le leggi proibizioniste, per coloro che si chiamano Welby o Englaro e che hanno la forza per trasformare le loro storie personali in battaglie politiche. E tutti gli altri? Tutti quei ‘diseredati’ – così il titolo della tavola rotonda di sabato – violentati nel tentativo di autodeterminarsi, privi degli strumenti per chiedere giustizia dei reati commessi dallo stesso Stato che dovrebbe tutelarli? Possono qualche volta ribellarsi, rivolgendosi alla magistratura costretta ad intervenire, nella latitanza della classe politica, per bilanciare il diritto alla salute con quello al lavoro, come nel caso dell’Ilva, e il diritto alla salute della donna con quello dell’esistenza del bambino, come nelle ultime sentenze del tribunale di Cagliari e della Cassazione di qualche settimana fa.
Quanto appena descritto, ovvero la nostra lamentata assenza di diritto, dovrebbe essere imputato al nostro tentativo radicale di trasformare ogni desiderio in diritto, ogni libertà in diritto esigibile, ponendo i tribunali a presidiare questo passaggio, come hanno sottolineato nella sessione ‘Le ragioni degli altri’ la storica Lucetta Scaraffia, editorialista dell’“Osservatore Romano”, e l’on. Eugenia Roccella. Hanno cercato di difendere la loro antropologia del naturale, come modello morale, tentando di giustificare biblicamente ma illogicamente - ‘neanche il corpo è nostro quando ci viene imposto di mettere la cintura di sicurezza’ – i loro proibizionismi dall’intervento artificiale sulla vita. ‘Non può esserci diritto alla morte, ma solo libertà di morire’ ha aggiunto la Roccella, peccato poi non aver ricordato che per l’omicidio del consenziente la pena prevista è di dodici anni.
La dialettica di questi Stati generali dei diritti civili è stata dunque questa, senza arrivare, per fortuna o purtroppo, ad una sintesi. Resta la preoccupazione per una mancata partecipazione corale a quello che è stato un momento di interessanti riflessioni che si sono sforzate di far emergere, nell’ubriacatura degli argomenti finanziari che riempiono le nostre giornate, la stretta connessione tra lo spread economico e lo spread democratico: società più aperte, che garantiscono maggiori libertà ai cittadini, sono anche quelle economicamente più forti.

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