Siamo tutti gay

Sono lesbica quando bevo, sono lesbica quando batto le dita su una tastiera, sono lesbica quando visito un paziente, sono lesbica quando gioco in borsa, sono lesbica quando servo ai tavoli, sono lesbica quando coltivo la terra…
Come si distingue un LGBTQI (lesbica, gay, bisessuale, trans, queer e intersessuale) da me? Da una dichiarazione personale, guardando dal buco della serratura della porta della camera da letto, immortalando un bacio in pubblico. Ma per tutto il resto loro sono noi, noi siamo loro. Intendendo per noi il mondo etero e per loro il resto del mondo, meno gli etero e suore e preti 'di origine controllata'.
Loro non vanno in giro con un cartello con su scritto ‘Faccio l’amore con il mio sesso’, né noi ci mettiamo al braccio la fascia di ‘Non sono una checca’. E allora perché sfilare al gay pride con perizoma e paillettes? Perché carnevalizzare il diritto a essere se stessi? Perché invece non sfilare in giacca e cravatta e con i soliti vestiti da lavoro? Perché invece di creare la differenza, non far emergere che loro rappresentano la nostra quotidianità?
Presupponendo come fondamentale e legittima la rivendicazione del diritto alla “parità, dignità, laicità e libertà”, come scritto nel documento politico della prossima manifestazione romana - Roma Pride del 15 giugno - in un parterre antropologico avverso ai mutamenti, ciò che va messa in dubbio è la modalità di richiesta del diritto stesso.
Il gay pride assume la forma dell’autoghettizzazione e non incide sullo scopo di integrazione sociale. Il problema della spersonalizzazione sociale di un LGBTQI – a parere di chi scrive - non si risolve distinguendosi con colori accecanti e danze di gruppo, ma attraverso due meccanismi: facendo sfilare il proprio essere quotidiano, mettendo pressione all’ipocrito Parlamento.
Estremizzare il proprio sé, imbrattare con rossetti lucenti le bocche degli uomini, spogliarsi dei propri vestiti e sostituirli con mutandine leopardate significa spogliarsi della propria identità e assumerne una fittizia che crea solo fastidio e scetticismo in coloro ancora impreparati non alla tolleranza – concetto il quale presuppone sempre la posizione di superiorità/normalità che accetta con riserva quella inferiore/diversa – ma alla convivenza senza se e senza ma.
L’obiettivo deve spostarsi sempre più da una pretesa di esistenza – già avvenuta in parte – ad una richiesta di riconoscimento di altro status affettivo davanti lo Stato. Non è cantando dai carri la propria omosessualità che si otterrà un totale inserimento: ma è facendo capire alla società che il panettiere, che ogni giorno ci regala un sorriso al bancone, o l’insegnante di nostro figlio, che stimiamo per la sua cultura, non declinano a esseri ignobili se baciano e amano il loro compagno.
Bisogna normalizzare i comportamenti non radicalizzarli in una parodia.

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